19.2.12

Genova 71. Ciechi e metalmeccanici uniti nella lotta (di Silvia Neonato)

La rievocazione di una lotta esemplare del "lungo 68". La condizione dei ciechi in un istituto che è "mondo a parte", l'intervento degli studenti politicizzati della Fgci e dei gruppi, lo scontro con un potere ottuso e conservativo, il decisivo appoggio degli operai, la vittoria finale. Il tutto in un articolo da "alias" del 2007 che prende occasione da una mostra fotografica. Una lezione per l'oggi: quanto più avanzano la forza e i diritti del movimento operaio organizzato in classe tanto più si diffondono diritti e libertà per tutti. Vale anche il contrario: l'aggressione ai diritti dei lavoratori (comunque presentata o giustificata) prelude alla restaurazione di una società classista e autoritaria in tutte le sue pieghe. (S.L.L.)

Un'assemblea di lotta all'Istituto per ciechi Chiossone di Genova
Un ragazzo seduto sul pavimento, al centro della foto, legge con le dita un testo in braille appoggiato sulle ginocchia mentre un altro ragazzo gli tiene il megafono davanti alla bocca. Nel documento si chiede cambio più frequente di lenzuola, cibo meno scadente, che la trentina di ragazze dell'istituto non sia tenuta rigidamente separata dai maschi e maggiore libertà di scelta negli studi e nella vita quotidiana.
Ragazzi ciechi e vedenti sono insieme in una sala con robuste colonne di marmo, sotto il busto di Davide Chiassone, il baffuto benefattore fondatore dell'istituto per ciechi che porta il suo nome dal 1868. Quel giorno, il 5 marzo 1971, vi sono ospitati un centinaio di ragazzi non vedenti liguri, ma anche piemontesi, toscani, del Sud e delle isole, mentre i ciechi più anziani vivono già in un'altra residenza.
All'interno ci sono le materne, le elementari, le medie e le scuole per musicisti e centralinisti frequentate dai più grandi. È la prima volta di un assemblea al Chiossone con studenti della Fgci ed extraparlamentare, ragazzi e ragazze cattolici, alcuni dei quali vengono da tempo, in qualità di lettori e amici, ma non di «agitatori politici». Ci sono anche universitari appassionati alle idee di Franco Basaglia che si battono (e lo faranno anche in futuro) contro i ghetti in cui vengono rinchiusi i portatori di handicap.
I dirigenti del Chiossone non gradiscono affatto che si rompa l'isolamento dei loro ragazzi che vivono e studiano in istituto. E chiamano la polizia che alle 19 di una serata ancora fredda sgombera senza riuscire a separare i ciechi dagli «intrusi» esterni, non tutti almeno. Così i cronisti locali, arrivati per raccontare quell'assemblea già di per sé particolare, devono scrivere di uno strano corteo che attraversa il centro della città e si presenta, sempre scortato dalla polizia, alla sede del Pci.
Nasce nei giorni seguenti il Comitato di agitazione che si conquista persino le simpatie dei benpensanti colpiti dallo sgombero violento dei ciechi e che diventerà un inedito e scomodo soggetto sulla scena politica cittadina arricchendosi via via dell'appoggio di sindacati e consigli di fabbrica.
Infatti se in marzo parte l'indagine del giovane questore d'assalto Andrea Mazzoni con i ragazzi rientrati in istituto e i dirigenti pronti a promettere le attese riforme, a giugno succede un fatto gravissimo: la direzione del Chiossone, malgrado avesse promesse il contrario, espelle undici contestatori e ne diffida ventidue, inviando un telegramma alle famiglie.
È quasi estate, gli studenti ciechi e i loro amici vedenti non si arrendono. Chiedono aiuto ai sindacati e ai consigli di fabbrica. I metalmeccanici genovesi, che sono in lotta per il contratto, scendono in piazza. Il consiglio di amministrazione dell'istituto è costretto a revocare i provvedimenti disciplinari e si dimette.
Il prefetto nomina commissario straordinario Andrea Mazzoni. Resterà in carica 13 anni introducendo molte riforme che anticipano l'oggi: il collegio viene chiuso, i ragazzi integrati nella scuola normale o assistiti a casa.
Per capirci, occorre ricordare che nel '71 gli istituti per ciechi in Italia erano 21 in tutto e ospitavano 3.000 non vedenti, quasi esclusivamente ragazzi di famiglie non abbienti vittime di incidenti (come Mirco Mencacci, il protagonista del bel film di Cristiano Bortone Rosso come il cielo, da ieri nelle sale italiane, che poi è diventato un sound design del cinema, e ha lavorato con Ozpetek e Giordana) o malati e mal curati spesso per mancanza di mezzi (come testimonia uno studio di quell'anno di Antonio Frau sulla rivista “Inchiesta”: il 93% degli 80 mila non vedenti italiani apparteneva alla classe operaia o contadina).
La legge non consentiva del resto di frequentare la scuola normale così i ragazzi venivano chiusi in quello che Fabio Levi ha definito «un mondo a parte» e che è anche il titolo del suo libro sull'istituto dei ciechi di Torino (Il Mulino, 1980). Regole rigide, punizioni, clausura. Il Chiossone, come gli altri istituti del tempo, impone le regole educative che dalla metà dell'Ottocento hanno formato generazioni di ciechi.
Quando, nel 1996, con Monica Lanfranco, abbiamo scritto la storia di quei mesi di lotta abbiamo intervistato quanti più protagonisti di allora e ci colpirono i legami fortissimi che molti di loro avevano mantenuto nel corso del tempo: ciechi, sindacalisti, assistenti sociali, la mitica «supe», ovvero suor Paolina (la superiora che regalava loro di nascosto qualche dolciume in più) erano rimasti legati dal 1971.
Le loro voci sono raccolte in Lotte da orbi (Erga), che vanta il piccolo primato di essere il primo libro in Italia uscito in stampa e in braille. E che trae il suo titolo politicamente scorretto dall'espressione «botte da orbi»: fino ai primi del Novecento i ciechi erano infatti costretti a vivere spesso di carità e di lavoretti tra i quali quello di essere messi in coppia sul ring: il divertimento consisteva nel veder volare i pugni solo qualche volta a segno.
Oggi, probabilmente anche grazie a quella lotta e a tutto ciò che ne seguì, il Chiossone è uno dei centri più qualificati in Italia nel campo della riabilitazione visiva, con una particolare attenzione ai bambini sotto i 5 anni. «Non ridiamo la vista, ma lavoriamo per l'autonomia» è il motto degli operatori di oggi.

"Alias" n.10, 10 marzo 2007

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