3.2.12

Salgari come maestro (di Carlo Casalegno - "Il Racconto" dicembre 1975)

Negli ultimi dieci anni mi è accaduto abbastanza spesso d'occuparmi di Salgari, per rileggerlo o per scriverne, tentato anche dalle splendide edizioni critiche offerte da Mondadori e da un infittirsi di ristampe che segnano una nuova fortuna del vecchio romanziere e quindi, come si suol dire, dimostrano la sua validità. Sono tornato all'autore letto avidamente per la prima volta mezzo secolo fa obbedendo a impulsi diversi: la speranza di ritrovare gl'incanti della fanciullezza, il desiderio d'incontrare ancora eroi mai dimenticati, il piacere di seguire le letture di mio figlio e discuterne con lui, la curiosità intellettuale delle scoperte che sempre si fanno rileggendo, con l'esperienza della maturità, gli scrittori frequentati durante l'adolescenza. Anche sotto questo aspetto la rilettura di Salgari è tutt'altro che priva d'interesse. I suoi romanzi, elementari e ripetitivi, sono forse un bazar dove si affastellano confusamente troppe suggestioni della letteratura e della moda; comunque essi riecheggiano, con un eclettismo onnivoro e con una sensibilità approssimativa ma autentica, quasi tutti i temi della cultura europea nella seconda metà dell'Ottocento: dalle esasperazioni del tardo romanticismo al fervore scientifico, dall'esotismo al dannunzianesimo, dal titanismo nietzschiano all'epopea dell'imperialismo. Nel mio rinnovato interesse per Salgari c'era, tuttavia, qualcosa di più: il desiderio di pagare un grosso debito di riconoscenza, e di capire perché avessi contratto quel debito. E' stato Salgari, tanti e tanti anni or sono, a farmi sentire per la prima volta il disgusto della tirannide, a farmi scoprire il valore della libertà. Ho avuto, immediatamente dopo, altri maestri: il Niccolò' de' Lapi e L'Assedio di Firenze mi accesero di spiriti libertari e repubblicani, I Miserabili mi suggerirono inclinazioni populiste (e Victor Hugo mi sembrava ben superiore al Manzoni, cosi' pacifista e moderato), il Ca ira mi fece amare la Rivoluzione. Ma Salgari mi aperse gli occhi quand'ero un «balilla» fiero della divisa ed entusiasta d'un regime che m'aveva dato bei gradi d'argento sulla manica, e mi consentiva di sfilare fuori dai ranghi, al comando della mia squadra. La lettura di Gli orrori della Siberia, con il calvario degli antizaristi nelle crudeli prigioni asiatiche e la loro fuga avventurosa verso la salvezza in Cina, fu la mia strada di Damasco: incominciai a meditare sugli arbitri del dispotismo, a sentirmi solidale con i ribelli, e quindi a pormi delle domande sul regime. Nello stesso periodo lessi I misteri della giungla nera e divenni nemico dell'oppressione inglese. Ricordo certi pomeriggi della domenica trascorsi con pochi amici a cercare d'immaginare come avremmo potuto contribuire alla libertà dell'India: nell'attesa di prendere qualche iniziativa pratica, prematura per la nostra età e fuori misura rispetto ai nostri mezzi, avremmo fondato una società segreta; più tardi ci saremmo schierati con Gandhi, certamente, ma senza accettare fino in fondo la resistenza passiva: mi sembrava lenta, inerte e poco eroica... Un'impressione meno forte, ma per certi aspetti non meno importante, l'ebbi dalla lettura di Cartagine in fiamme. Mentre la propaganda del regime esaltava la romanità, ecco un romanzo che celebrava la difesa dei cartaginesi aggrediti dagl'imperialisti romani: se era giusto «tenere» per i patrioti del Risorgimento contro l'Austria (mi chiedevo), la coerenza non esigeva forse di solidarizzare con Annibale contro Scipione? Quest'analogia non avrebbe convinto uno storico né un teorico della politica, ma poteva condurre a conclusioni interessanti la mente di un ragazzo. Vincolato a quei ricordi, in anni vicini ho avuto la curiosità (capita, quando si arriva sui cinquanta) di rileggere Salgari attraverso quei miei vecchi pensieri, e d'indagare se nei suoi romanzi ci fosse davvero un'ispirazione politica tale da giustificare le conseguenze che ne avevo tratto. Mi convinsi rapidamente che Emilio Salgari non soltanto non era (come certi imbecilli avevano affermato) un precursore del fascismo, dell'arditismo, del nazionalismo bellicoso; ma era anzi uno scrittore controcorrente, anticolonialista nell'età dell'imperialismo, solidale con gli uomini di colore quando l'Europa credeva nel «fardello dell'uomo bianco», nemico d'ogni ingiustizia e oppressione. Nei suoi cento racconti d'avventura, scritti per i ragazzi senza propositi educativi e senza impegno di propaganda, improvvisati su povere fonti, buttati giù in due mesi per bisogno di denaro ma anche per soddisfare in qualche modo il desiderio inappagato d'avventure splendide e gloriose, non è difficile individuare due caratteristiche essenziali, cui l'autore rimase fedele con grande coerenza. Un fervido amore della libertà e della giustizia, un'attenzione appena dissimulata ai fatti del mondo. In apparenza lontano dalla politica, era mosso da una sua elementare passione politica; narratore d'inverosimili ed esotici prodigi, era uno scrittore strettamente legato all'attualità. Lo fu sin dagli esordi. A 17 anni aveva pronto un abbozzo di romanzo dal titolo Giorgio Schestakoff, ovvero un esiliato fuggito dalla Siberia (poi rifuso negli Orrori): la composizione coincide con il momento più duro della guerra tra lo zar Alessandro II e i nichilisti. Il primo racconto edito, Tay See, apparve sulla Nuova Arena di Verona nel 1883 mentre Parigi procedeva alla conquista dell'Indocina: il sottotitolo precisava trattarsi di una «storia d'amore ardente e di guerra feroce, laggiù in quei fantastici e ricchi paesi dove ora i francesi cercano di portare la civiltà a colpi di cannone». A questa formula, a questo spirito Emilio Salgari restò sempre fedele. Il primo vero romanzo salgariano, La favorita del Madhi, uscì a puntate mentre il Madhi conquistava il Sudan, e il volume poco dopo la morte del generale Gordon a Khartum. Il primo «ciclo della giungla» accompagnò l'espansione inglese in Birmania e in Malesia, ed apparve in perfetta concordanza di tempi con i due Libri della giungla di Kipling (che certo Salgari ignorava). Dietro La scimitarra di Buddha s'intravedono le convulsioni della Cina; Il Fiore delle perle compare in libreria subito dopo la spedizione paneuropea contro Pechino. Il grande «ciclo dei Corsari» incomincia, non a caso, mentre nei Caraibi si combatte quella guerra di Cuba che segnò la fine dell'impero spagnolo e concluse il processo di liberazione dell'America Latina. Le stragi delle Filippine escono all'indomani della rivolta antispagnola e La capitana dell'Yucatan fa da controcanto alla guerra ispano-americana. La tournée di Buffalo Bill in Europa ispira il (mediocre) «ciclo del Far West». I predoni del Sahara si legano alla penetrazione francese oltre l'Atlante e alla crisi marocchina. Manca invece - e può sembrare strano in un autore che cercava il successo anche attraverso spunti d'attualità - qualche aggancio alle avventure africane dell'Italia: come se Emilio Salgari non si fosse accorto di Dogali, di Adua, della spedizione in Somalia. Ma io penso che quest'indifferenza, o reticenza, non fosse per nulla casuale. Lo scrittore non avrebbe potuto riferirsi a vicende italiane senza trovarsi impegnato in un grave caso di coscienza: rinnegare o la sua patria o le sue convinzioni. Non se la sentiva nè di schierarsi con Menelik, nè di approvare la conquista coloniale. Con il cuore, stava dalla parte dei popoli che difendevano la propria indipendenza. Salgari è risolutamente anticolonialista, e quindi anglofobo. Detesta l'Inghilterra non meno di Sandokan. E' solidale con «i valorosi difensori della libertà indiana», che gl'inglesi schiacciarono «dando un ben triste saggio della civiltà europea»; con i malesi e con i filippini; con i sudanesi insorti contro la duplice oppressione anglo-egiziana; con gl'indigeni d'America; con i nomadi ribelli del Nordafrica. Amore di libertà e di giustizia gli rendono cari tutti gli oppressi: i cartaginesi minacciati da Roma, i «generosi fiamminghi» schiacciati dalla Spagna, i veneziani ridotti in schiavitù dalla prepotenza turca, i poveri cinesi costretti alla servitù del lavoro coatto, i patrioti perseguitati. In Salgari c'è ancora un'ispirazione risorgimentale, anche se egli scrive nell'età del nazionalismo avanzante e dell'imperialismo trionfante, nell'epoca di Crispi e di Cecil Rhodes, di Chamberlain e di Leopoldo II. Ma, diversamente da certi anticolonialisti d'oggi, egli non rovescia sull'Europa tutti i delitti e tutte le colpe; non identifica il male nell'Occidente, come si fa adesso con una faziosità di segno contrario. Indifferente al colore della pelle o della bandiera, Salgari non cade negli schematismi manichei: pensa semplicemente che tutti gli uomini abbiano gli stessi diritti. Scrittore d'un tempo che non accettava l'eguaglianza con gli uomini di colore, egli rifiuta ogni discriminazione razziale: per lui la pelle bianca non è un privilegio, né la pelle scura un'attenuante. In India, Sandokan e Tremal Naik hanno due nemici: gl'inglesi e gli strangolatori della dea Kalì. In Marocco i suoi eroi si schierano con i colonialisti europei contro i brutali predoni del Sahara e contro il fanatismo religioso delle masse indigene. La parte del «cattivo» in Capitan Tempesta tocca ai turchi, nel Corsaro Nero agli spagnoli, in La capitana dell'Yucatan agli americani: a Cuba - scrive Salgari anticipando di settant'anni certi odierni giudizi furiosamente antiamericani - «la povera Spagna cercava di salvare, quantunque povera e dieci volte più debole, l'onore della propria nazione codardamente calpestato da una strapotente e ingenerosa avversaria». La barriera del colore non esiste né in guerra né in amore. Il negro Moko è l'amico più fedele del Corsaro Nero, gl'indigeni della Florida salvano la figlia di Wan Gould, il portoghese Yanez e il malese Sandokan si sentono fratelli. Dato ancor più significativo, in Salgari la passione amorosa scoppia quasi sempre tra personaggi di razza diversa (e si conclude o con la morte o con il matrimonio, perché i suoi eroi non accetterebbero mai libere unioni): l'indiano Tremal Naik sposa Ada, figlia d'un ufficiale inglese; la spagnola Teresa d'Alcazar perde la testa per il capo dei guerriglieri filippini; l'eroina cristiana Capitan Tempesta si unisce in legittime nozze con l'arabo Leone di Damasco. (Per evitare lo scandalo di questo matrimonio misto, nella traduzione cinematografica del romanzo, il fascismo costrinse il regista a far morire il Leone e unì la bella guerriera con l'ex fidanzato italiano). Naturalmente, Salgari respinge l'antisemitismo con ferma risolutezza. Ancora una volta, non è una coincidenza fortuita che il marchese di Sartena, nei Predoni del Sahara, affronti tremende peripezie per difendere la bella ebrea Ester e il suo infelice padre, e alla fine la sposi e la conduca con sé in Europa: il romanzo segue di pochissimi anni, o addirittura mesi, l'affaire Dreyfus, le violenze antisemite in Algeria, lo scoppio dei pogrom in Russia. Il caro romanziere della nostra infanzia aveva scelto questo modo per far politica e battersi a favore della civiltà e della giustizia. Come De Amicis, ma con maggiore discrezione, Emilio Salgari ci educava cospargendo i buoni insegnamenti con il «soave licore» di mirabolanti avventure. Ora capisco perché, alla prima lettura, m'insegnò a rifiutare il dispotismo; e forte di questa consapevolezza posso, serenamente, riconoscerlo Maestro. 

 

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