2.2.12

Sessantotto. A Valdagno la statua nella polvere: una lotta operaia (Orsola Casagrande)


Una statua per terra, nella polvere. Abbattuta da un gruppo di giovani operai. E' il padrone caduto. Non un padrone "qualunque". Quella è la statua in bronzo del conte Gaetano Marzotto, proprietario dell'omonimo lanificio. Valdagno, cittadina in provincia di Vicenza, 19 aprile 1968. La statua del padrone cade. Come ha scritto Cesco Chinello «l'abbattimento della statua del conte Marzotto descrive lapidariamente l'itinerario percorso dalla rassegnazione alla lotta». Oggi quella lotta e le testimonianze di alcuni dei protagonisti si possono rileggere grazie al libro curato da Oscar Mancini, della Cgil Regionale, e pubblicato da Ediesse e Fondazione Di Vittorio, in questi giorni nelle librerie.
Sono gli atti del convegno La statua nella polvere che si è tenuto a Vicenza nell'aprile dell'anno scorso, in occasione del quarantesimo anniversario del '68. Ma sono più che degli atti. Perché il libro offre le testimonianze dirette di alcuni dei protagonisti di quella lotta. Scrive Carlo Ghezzi, presidente della fondazione Di Vittorio che il lanificio Marzotto «era cresciuto negli anni sotto un marcato paternalismo e una scarsa incidenza dell'azione sindacale. In una zona caratterizzata da una cultura politica moderata la Cisl è più presente mentre la Cgil nel 1968 ha solo 42 iscritti». Bassi salari e scarsa innovazione sono le scelte prevalenti che la borghesia italiana attua per reggere i mercati. Alla Marzotto di Valdagno dal settembre 1967 sono in corso trattative sul piano di ristrutturazione aziendale che approdano nel novembre a un accordo condiviso da Cisl e Uil, ma la Cgil non lo sottoscrive. Nell'anno successivo riprendono gli scioperi e ben 143 sono le ore di lotta contro l'intensificazione dei ritmi di lavoro e per il mantenimento dei livelli occupazionale. Gli scioperi vedono un'ampia partecipazione e tanta rabbia da parte dei lavoratori. Una rabbia che cresce fino a quando il 19 aprile, nel corso della giornata di lotta proclamata unitariamente, oltre 3000 persone manifestano a Valdagno. La polizia carica duramente e due operai vengono fermati e poi rilasciati, ma le tensioni aumentano. Nel pomeriggio altri scontri con la polizia accompagnati da qualche sassaiola che coinvolgono progressivamente tutto il paese e si concludono con un bilancio pesante: 300 fermi e 42 arresti. Mentre continua la resistenza operaia un gruppo di operai lega con una corda la statua in bronzo del Conte Gaetano Marzotto. La statua viene abbattuta. Un atto liberatorio, la liberazione dal padrone.
Toni Negri, in un suo scritto proprio su “il manifesto” nell'anniversario della lotta di Valdagno si chiede come potesse essere esplosa Valdagno? «Non ci provo nemmeno a descriverlo e a spiegarlo - scrive Negri - c'è un intero scaffale di biblioteca. Per dirlo, "l'avvenimento topico del '68" . Voglio solo raccontare che cosa significasse una cosa del genere (sciopero operaio, sommossa del paese - più simili a una jacquerie premoderna che a una rivolta industriale - e poi il rovesciamento, kaputt, della statua del fondatore, del padre-padrone, del cattolico illuminato - una tradizione è infranta: questa è terra di nascita o di adozione di alcuni pontefici, luogo di sperimentazione della cosiddetta dottrina sociale della Chiesa dove profitto e carità dovrebbero dormire sotto la stessa coperta».
Non può essere interpretato semplicemente come una jacquerie - scrive invece Emilio Franzina - ma fu soprattutto uno storico scontro di classe che anticipava e finiva pure per annunciare e per prefigurare molti aspetti dell'autunno caldo del '69.
Valdagno risultava un evento straordinario, anche se quando l'operaio Espedito Floriani racconta com'era la vita alla Marzotto, forse la straordinarietà di quella lotta assume un altro significato. «Sai cosa sono i bidò? (termine popolare per indicare il sistema di cottimo Bedeaux dal suo fondatore, ndr) una volta c'erano i bidò per i cottimi. Era una cosa impressionante dentro la fabbrica. Il marcatempi con il cronometro in mano. Contava quanto ci mettevi a togliere la bobina e quanto a metterla su. Con il cottimo chi lavorava di più guadagnava di più, chi lavorava meno guadagnava meno. Ti veniva assegnata una macchina e un certo quantitativo di produzione minima. Il marcatempi ti seguiva con il cronometro e quando andavi al gabinetto lo fermava, ti seguiva e controllava quanto rimanevi dentro. E poi c'erano i provvedimenti disciplinari e il rischio di finire nella lista dei licenziati». E ancora dice Floriani che «il maggiore era il capo delle guardie. Lo chiamavamo così perché era un maggiore dell'esercito fascista in pensione. Le guardie facevano rapporto a lui e dopo qualche giorno ti chiamava in portineria. Lì dovevi stare in silenzio e lui ti infliggeva le punizioni: multe, sospensioni o licenziamento».
E' in questo clima che matura la lotta alla Marzotto. Che naturalmente non si esaurisce con il 68 e nemmeno con il 69. Anzi, la conflittualità nella fabbrica va ben oltre la primavera del 68 e sfocia nell'occupazione della fabbrica prima e quindi, nel febbraio del 1969, in un accordo sindacale sottoscritto unitariamente. «Una clamorosa vittoria» risultato di una «conduzione prudente e insieme audace delle lotte» come ha scritto Nicola Tranfaglia nella prefazione.
A Valdagno tutti sanno che lo si deve soprattutto alla tenacia e lungimiranza di Ermenegildo Palmieri, l'amato segretario della Filtea Cgil dell'epoca, che ha fatto dell'esercizio della democrazia e della partecipazione il suo cavallo di battaglia. Ricorda Oscar Mancini, «catapultato a Valdagno nel 1972» che «il ciclo di lotte iniziato nella primavera del '68 quando viene abbattuta la statua di Marzotto, sorta di icona monumentale del paternalismo padronale nel Veneto bianco, aveva lasciato una cospicua eredità. Trovai a Valdagno - dice Mancini - un sindacato dotato di notevole potere contrattuale, di strutture rappresentative profondamente democratizzate dall'istituzione dei delegati di reparto, del consiglio di fabbrica e della pratica del rapporto costante coi lavoratori attraverso le assemblee e la quotidiana presenza dei sindacalisti davanti alle portinerie».
Il presidente della fondazione Di Vittorio Carlo Ghezzi ricordando che le vicende della Marzotto segnarono l'inizio del biennio rosso 1968-'69 sottolinea che «il '68 è l'anno degli studenti ma il lavoro non è né assente né silente. Il '69 è invece indiscutibilmente l'anno dei lavoratori. L'autunno caldo delle classe operaia italiana, a differenza da quanto accade in altri paesi europei, dura un decennio; con alti e bassi si protrae fino alla sconfitta subita dalla Flm alla Fiat nel 1980. Il sindacato - scrive Ghezzi - esce da quegli anni profondamente mutato, ha saputo cogliere molte istanze emerse da quella convulsa fase storica misurandosi, non senza resistenze interne, con la voglia di partecipare che tanta parte della società esprime in forme nuove, ha avuto la lungimiranza di comprendere molte delle novità emerse in quel periodo e di integrarne le potenzialità nell'organizzazione».
Dalla riflessione su quegli storici eventi Oscar Mancini, nella sua introduzione, ricava insegnamenti per le sfide del futuro. «Affrontare con più coraggio» il rinnovamento della Cgil a partire dal ruolo dei Consigli di Zona come luoghi per ricostruire dal basso la partecipazione democratica alla vita del sindacato, per riunificare il lavoro frantumato e disperso, per connettere le lotte per i diritti del lavoro con i diritti di cittadinanza. In una parola non un «sindacato per i lavoratori» bensì un «sindacato dei lavoratori». Forse anche oggi, per dirla con Ghezzi, occorrerà superare qualche «resistenza interna».

"il manifesto", 18 gennaio 2009

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