5.3.12

Beni comuni (di Roberto Monicchia - da "micropolis" febbraio 2012)

Com’è chiara, ben scritta, utile su “micropolis” di febbraio 2012 la recensione di Roberto Monicchia! Il libro di cui ragiona è il recente manifesto sui “beni comuni” di Ugo Mattei. L’approccio di Roberto al libro e al tema, espressione di un marxismo rigoroso e aperto, mi pare condivisibile fin nelle virgole. Mi pare che indichi anche un percorso di ricerca, una sfida per i marxisti del nuovo millennio, mettendo a fuoco questioni decisive. (S.L.L.)

L’eccezionale risultato dei referendum sull’acqua ha trasformato anche in Italia i beni comuni da argomento accademico in tema politico di massa. Il saggio di Ugo Mattei Beni comuni.Un manifesto (Laterza, Roma-Bari 2011) li qualifica come risorsa decisiva per il futuro del pianeta. Il paragone con il Manifesto comunista non è nominale, perché l’autore, giurista militante, coautore dei quesiti referendari sull’acqua, al pari di Marx considera una nuova visione della realtà una condizione della sua trasformazione. Specificando il parallelo si può dire che il motore storico della lotta di classe è affiancato dalla lotta per il “comune”: la sua riappropriazione sociale è la forma attuale dell’abolizione della proprietà privata.
Il problema dei beni comuni si fa evidente nell’ultimo ventennio quando un capitalismo multinazionale dotato di un potere senza precedenti dà l’assalto ai beni naturali non ancora pienamente mercificati e alle nuove forme di produzione sociale, come le reti informatiche. Emergono al tempo stesso la difficoltà a porre argini istituzionali a tale attacco, dato l’indebolimento degli stati, ma anche una vivace resistenza degli espropriati.
Alla radice del problema non c’è però solo una distorsione della dialettica stato-proprietà, bensì la riconferma dei caratteri costitutivi della modernità capitalistica. A cominciare dal Capitale, una vasta letteratura indica come le risorse necessarie all’industrializzazione provengano dal processo di espropriazione che Marx chiama “accumulazione originaria”, le cui principali tappe sono l’espansione coloniale e le recinzioni, cioè la privatizzazione di fondi in precedenza coltivati dalle comunità di villaggio. Questa dinamica non è solo la premessa storica del capitalismo, bensì il cemento dell’intero edificio della modernità, con le sue strutture sociali, istituzionali e culturali.
L’appropriazione dei beni comuni si ripropone in ogni fase espansiva, secondo una dinamica cumulativa che attualmente sembra toccare i limiti naturali, generando crisi sempre più gravi. Il carattere distruttivo di questa usurpazione è evidente fin dalle fasi iniziali: sul piano economico alla produzione comunitaria, solidale, ecologica e qualitativa del medioevo, si sostituisce un modello di sviluppo individualista, e quantitativo. Sul piano giuridico, il riconoscimento della proprietà privata della terra fonda tanto il primato del profitto individuale, quanto il monopolio statale della giurisdizione. In altri termini proprietà privata e autorità statale nascono e crescono insieme, in una dialettica che esclude il terzo attore, appunto il “comune”. Nel mondo moderno, dunque, privato e stato non sono alternativi, bensì convergono nell’usurpazione dei diritti della società, come oggi appare evidente. I sistemi costituzionali occidentali cristallizzano tutto ciò nel rule of law, che postula l’impossibile indipendenza della legge dai rapporti sociali. Completa il quadro la fondazione della scienza moderna sulla separazione tra soggetto e oggetto, che deforma la complessità sociale: dal mito del patto che avrebbe liberato l’uomo dalla barbarie al riduttivismo economico che identifica il benessere con l’appropriazione cumulativa, escludendo la qualità della vita e le responsabilità verso ambiente e futuro.
Riducendo a merce i beni comuni, il mondo moderno ha separato vita e sapere e subordinato l’essere all’avere. E’ un orizzonte talmente radicato da sembrare unico: per questo, come hanno mostrato le esperienze di Bolivia ed Ecuador, la lotta per i beni comuni inizia da una rivoluzione culturale, che afferma una visione della realtà fenomenologica (oggetto e soggetto non esistono separati, l’uomo non può considerare la natura come mero oggetto di sfruttamento), inclusiva (i beni comuni si basano sul libero accesso), ecologica, transgenerazionale, e si attua mediante un modello politico fondato sulla partecipazione e l’autogestione dal basso.
Se queste sono le tappe intermedie, il discorso si spinge a indicare la necessità di un’alternativa di sistema: il motto “socialismo o barbarie” diventa oggi “beni comuni o estinzione”. I contorni della società futura sorgono dal ristabilimento delle condizioni che la modernità ha abolito, a partire dall’esplicito richiamo a istituti medievali come l’università o la personalità del diritto.
E’ di fronte a questa generalizzazione che nascono molti dubbi. In primo luogo, l’affermazione del comune si può dare come ritorno allo “stato di natura”? Anche negando qualsiasi ruolo “progressivo” all’accumulazione, il suo carattere pervasivo non cambia anche le condizioni del suo superamento? Ad esempio: abolito lo schiavismo, è possibile il ritorno degli schiavi in Africa?
Ma se pure questa rivoluzione come “ritorno alle origini” fosse possibile, è essa auspicabile? La riduzione dei beni comuni a barbarie è certamente un assunto ideologico, ma non lo è altrettanto la virtuosità delle comunità autosufficienti? Discutendo con i populisti, Marx individua un eventuale ruolo della comunità di villaggio russa solo nel quadro di un rivoluzionamento complessivo, impensabile senza un poderoso sviluppo delle forze produttive. Quanto al rifiuto della separazione tra soggetto e oggetto, non si confonde l’alienazione – la separazione dell’uomo dai mezzi e dai prodotti del proprio lavoro - con l’oggettivazione (ricambio organico con la natura)? Quest’ultima sembrerebbe un dato proprio della specie umana, che è per così dire “naturalmente antiecologica”. Detto in altri termini, anche in assenza di diritti esclusivi di proprietà, non è che le comunità di villaggio non mirassero al maggior sfruttamento possibile delle risorse.
Ancora: la differenza tra statalizzazione e socializzazione è già presente in Marx, ma nei due secoli trascorsi l’identità tra proprietà privata e proprietà statale non pare così scontata: l’ultimo violento attacco capitalistico ai beni comuni non è stato favorito dal crollo del socialismo reale? Infine, l’annoso dilemma: si può “diffondere” il potere senza “prenderlo”? Il cambio di presidente in Bolivia è ininfluente sulla generalizzazione delle lotte di Cochabamba?
Tornando al confronto iniziale, il giudizio sul Manifesto di Mattei si può efficacemente riassumere nella critica del Manifesto del 1848 al “socialismo piccolo-borghese”, che “ha anatomizzato con estrema perspicacia le contraddizioni insite nei moderni rapporti di produzione. Tuttavia, quanto al suo contenuto positivo, questo socialismo o vuole restaurare gli antichi mezzi di produzione, o vuole rinchiudere di nuovo con la forza entro gli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione. In entrambi i casi esso è insieme reazionario e utopistico” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Einaudi 1964, pp. 181-82). Dunque, i beni comuni sono un importante strumento di critica del capitalismo e un fronte decisivo di lotta. Non convince invece la loro assunzione a centro di un’alternativa pensata come restaurazione di un qualche “equilibrio originario”. Può darsi che la catastrofe ecologica imponga di restringere il campo delle possibilità di vita, di relazione, di sviluppo dell’umanità. Ma questa necessità non è anche auspicabile. Restiamo persuasi che la “dialettica dell’illuminismo” sia (questa sì) reversibile, cioè che valga ancora la pena cercare una declinazione socialmente ed ecologicamente compatibile dell’idea di progresso.

"micropolis" febbraio 2012

1 commento:

  1. roberto monicchia15/3/12 18:20

    salvatore, perché sei sempre così generoso con me? ho fatto nient'altro che una scheda di lettura, magari più pilita del solito, ma niente di più. Grazie comunque, un abbraccio Roberto

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