24.3.12

Ferguson e la superiorità dell'Occidente (di Riccardo De Sanctis)

L’articolo che segue, di Riccardo De Sanctis, dal “manifesto” del 12 gennaio 2011, è un bilancio critico dell’attività di uno storico di successo, lo scozzese Niall Ferguson, in occasione della pubblicazione (in lingua inglese) dell’ultimo suo libro Civilization: The West and the Rest (italiano Civiltà. L’occidente e il Resto del mondo). Nel caso di Ferguson più che di storiografia si dovrebbe parlare di “ideologia”: da molte sue opere, non a caso amatissime nelle ristrette oligarchie finanziarie che ancor oggi fanno il bello e il cattivo tempo, i dati storiografici sono piegati a sostegno di una tesi: la superiorità dell’Occidente, del suo capitalismo-imperialismo, rispetto ad ogni altra forma di civilizzazione. Con l’ardita postilla che legge il declino dell’Occidente come riprova della sua superiorità. La sugosa sintesi di De Sanctis mi pare utilissima non solo per una prima informazione sulle tesi di Ferguson, ma anche per comprendere il sostrato ideologico della “dittatura tecnocratico-finanziaria” che in Italia e in Grecia sta facendo le sue prime importanti prove e che, verosimilmente, si diffonderà come la peste o come, a suo tempo. il fascismo. (S.L.L.)
Niall Ferguson

Nel recente Civilization Niall Ferguson scrive che l'Occidente è in crisi, perché non crede più al proprio modello, che si rivela vincente in altre aree del mondo. Un'ottica neoimperialista, ribatte il saggista angloindiano Pankaj Mishra. È una vera e propria querelle - o per dirla all'inglese un feud - la polemica scoppiata sulle due rive dell'Atlantico in seguito all'uscita nel Regno Unito e negli Usa di Civilization: The West and the Rest dello storico britannico Niall Ferguson (in Italia sarà pubblicato nel 2012 da Mondadori). Consapevole di quanto può fare per la diffusione di un libro una pubblica controversia, Ferguson ha reagito alla pioggia di critiche che hanno sommerso il suo libro con un articolo sul «Wall Street Journal» (2021 The New Europe) nel quale immagina l'Europa fra dieci anni, prefigurando che la parte sud del continente, Italia compresa, sarà composta di cuochi e giardinieri per tedeschi e inglesi in vacanza. Una ulteriore provocazione che difficilmente farà cambiare idea a coloro i quali, come il romanziere e saggista indiano Pankaj Mishra, hanno definito senza mezzi termini «razzista» lo studioso scozzese (che ha minacciato per questo azioni legali).

Un set di istituzioni
Ormai da diversi anni Ferguson, docente a Harvard e alla London School of Economics (e marito dell'attivista olandese di origini somale Ayaan Hirsi Ali), ha allargato il campo dei suoi interessi fino a cimentarsi con concetti vastissimi come quello, appunto, di civiltà. Secondo lo storico, con la crisi attuale siamo arrivati alla fine di un predominio occidentale durato cinquecento anni - un modello i cui elementi principali sono il potere e la ricchezza e di conseguenza le strutture politiche, sociali ed economiche che li sostengono. Ma se l'occidente è in crisi - questo in sostanza l'assunto di Ferguson - il modello è vincente: «Quello che una volta caratterizzava l'Occidente non è più un nostro monopolio. I cinesi hanno il capitalismo. Gli iraniani hanno la scienza. I russi hanno la democrazia. Gli africani stanno (lentamente) acquisendo la medicina moderna. E i turchi hanno la società dei consumi... La civiltà occidentale è più di una cosa sola, è un pacchetto. È il pluralismo politico e il capitalismo; è libertà di pensiero e metodo scientifico; è l'amministrazione della legge e la democrazia».
Proprio questo pacchetto sarebbe per Ferguson il miglior «set» disponibile di istituzioni economiche, sociali e politiche. Il punto è se gli occidentali sono capaci di riconoscerne la superiorità: «La vera minaccia - scrive - non è nella crescita della Cina, dell'Islam o delle emissioni di Co2, ma nella nostra stessa mancanza di fede nella civiltà che abbiamo ereditato dai nostri antenati». E per dimostrare la ragionevolezza del suo assioma, lo storico porta a sostegno l'esplosione della civiltà occidentale negli ultimi cinquecento anni: «Nel 1500 le future potenze imperiali d'Europa occupavano circa il 10 per cento della superficie della terra e contavano al massimo il 16 per cento della sua popolazione totale. Nel 1913 undici potenze occidentali controllavano quasi i tre quinti dell'intero territorio e della popolazione mondiale e circa il 79 per cento dell' economia globale... Ogni anno che passa sempre più esseri umani fanno shopping come noi, studiano come noi, sono in buona (o cattiva) salute come noi e pregano (o non pregano) come noi».
Una lettura della storia estremamente semplificata (forse non è un caso che il libro sia nato in parallelo a una serie televisiva realizzata da Ferguson su questi temi) e che si scontra per esempio con quanto ha scritto Christopher Bayly, cattedra a Cambridge, uno dei maggiori esperti inglesi di storia coloniale, nel suo La nascita del mondo moderno 1780-1914 (Einaudi 2009). Secondo Bayly il dominio dell'Occidente comincia ad avere effetti solo a partire dal XIX secolo e naturalmente non è il risultato di una particolare «cultura» superiore rispetto a quella degli altri continenti, visto che - giusto per citare un solo esempio - alla fine del Settecento l'India e la Cina fabbricavano più manufatti e pubblicavano più giornali che Francia, Inghilterra, Italia e Germania.

Parabole discendenti
Autore di saggi letterari e politici come quelli raccolti nel volume La tentazione dell'occidente. India, Pakistan e dintorni, Guanda 2007), nei quali cerca di interpretare l'idea dell'Asia in tempi post-coloniali, Pankaj Mishra rivolge a Ferguson («homo atlanticus redux») critiche ampie e articolate in un articolo uscito sulla «London Review of Books». Quella di Ferguson - sostiene Mishra - è in sostanza una nozione di «civiltà» misurata solo sulla capacità di miglioramento della qualità materiale della vita. Una nozione del resto di cui si possono già trovare diverse tracce nelle opere precedenti dello storico scozzese.
In The pity of war del 1998 (tradotto in italiano per il Corbaccio nel 2002 con il titolo La verità taciuta. La prima guerra mondiale: il più grande errore della storia moderna), Ferguson attribuiva alla Gran Bretagna la responsabilità di avere dato avvio alla prima guerra mondiale, e individuava in quell'avvenimento l'inizio della parabola discendente per l'Impero britannico, sottovalutando, se non ignorando, il ruolo dei movimenti anticolonialisti in Asia. Nel successivo The Cash Nexus (Soldi e potere nel mondo moderno, 1700-2000, Ponte alle Grazie 2001) pubblicato pochi mesi dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre, Ferguson sosteneva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto destinare una parte maggiore delle proprie risorse a rendere il mondo più sicuro per il capitalismo e la democrazia.

Il ruolo dell'impero
In Empire uscito in originale nel 2003, poco dopo l'invasione dell'Iraq (Impero: come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Mondadori 2007), lo studioso affermava che gli Usa erano un impero incapace di riconoscersi come tale e che, volendo, avrebbero potuto esercitare lo stesso ruolo imperiale della Gran Bretagna nel XIX secolo. Infine, in Colossus: The Rise and Fall of the American Empire (2004, in italiano Colossus. Ascesa e declino dell'impero americano, Mondadori 2006) Ferguson sembra preoccuparsi più della capacità che della legittimità dell'impero americano, ritornando - nota Mishra nel suo articolo - alla storia dei bianchi così come veniva declinata ai tempi dell'imperialismo.

Uniformità di vestiario
Determinanti per il successo dell'Occidente sul «resto» del mondo (The West and the Rest è l'inequivocabile sottotitolo di Civilization) sarebbero quelle che lo storico scozzese chiama, adoperando un brutto gergo da computer, «killer apps», applications: la competizione, la scienza, la proprietà, la medicina, il lavoro, i consumi. In altre parole una rete di idee e comportamenti, basate su una struttura morale e un modo di agire, che avrebbero fornito il collante per una società potenzialmente dinamica. Sulla società dei consumi in particolare Niall Ferguson si sofferma a lungo: «Oggi - afferma - è così diffusa da farci pensare che sia più o meno sempre esistita. In realtà è una delle più recenti innovazioni del capitalismo, e anche quella che ha spinto l'Occidente più avanti rispetto al resto del mondo». Per lo storico l'abbigliamento è al cuore del processo di occidentalizzazione: con la manifattura tessile - scrive in sostanza lo storico - ha avuto origine la rivoluzione industriale, e già allora il lavoratore non era soltanto uno schiavo del salario, ma anche un consumatore.
Di questo processo iniziato più di due secoli fa saremmo adesso per Ferguson al punto di arrivo, culmine trionfante della «civiltà occidentale» - nel mondo intero la stragrande maggioranza della gente veste in modo molto simile: gli stessi jeans, le stesse scarpe da ginnastica, le stesse t-shirt... E se qualcuno non fosse convinto, Ferguson è pronto a portare a sostegno dei suoi ragionamenti una controprova. Tra le pochissime sacche di resistenza contro questa gigantesca macchina sartoriale di uniformità, c'è il Perù rurale: nelle montagne delle Ande le donne quechua vestono coloratissimi abiti tradizionali, con scialli e piccoli cappelli di feltro. Peccato, si affretta a puntualizzare lo storico, che questi non siano affatto abiti tradizionali, ma abbiano origine - guarda caso - in occidente: i vestiti, gli scialli e i cappelli sono di origine andalusa e vennero imposti dal vicerè spagnolo Francisco de Toledo nel 1572.

Esperimenti naturali
Un altro cavallo di battaglia di Ferguson è la nascita della scienza moderna. Lo sviluppo delle scienze e della medicina furono senza dubbio un importante fattore di potere: le nuove conoscenze fornirono migliori modi di navigare, di estrarre minerali, di costruire cannoni e di curare le malattie... E dalla metà del XVIII secolo in poi la gran parte delle innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche avvengono in Occidente. Rimane da chiedersi come sia stato possibile, quando si pensa che a metà del '500 la tecnologia cinese, la matematica indiana e l'astronomia araba - tanto per fare qualche esempio - erano molto più avanzate che in Occidente. Un quesito a cui gli storici della scienza non riescono a dare risposte definitive. Ma lo studioso scozzese ha la risposta pronta: il mondo cristiano, sostiene, usa la scienza per cambiare il mondo, l'Islam trova blasfemo svelare i segreti divini. Peccato che per secoli la scienza si sia basata soprattutto sulla tradizione araba.
Tra i fattori di predominio dell'Occidente va individuata sicuramente la conquista e la colonizzazione delle Americhe, quello che secondo Ferguson è stato uno dei più grandi esperimenti naturali della Storia: «Prendete due culture occidentali, - scrive - esportatele e imponetele a una larga varietà di popolazioni e territori - Britannici al Nord, Spagnoli e Portoghesi al Sud. Poi vedete chi fa meglio. Non c'era partita. Guardando al mondo oggi, dopo quattro secoli, nessuno può dubitare che la forza dominante nella civiltà occidentale sono gli Stati Uniti d'America». Come e perché è accaduto? Non perché la terra al nord era più fertile o perché fosse più ricca di oro e petrolio, o perché il clima fosse migliore o semplicemente perché l'Europa era più vicina. No, la differenza - secondo lo storico britannico - sta in un'idea: «Un'idea ha segnato la differenza cruciale fra l'America degli inglesi e quella iberica: un'idea circa il modo con cui la gente si dovesse governare. Non fate l'errore di chiamarla democrazia e immaginare che qualsiasi paese può adottarla semplicemente indicendo delle elezioni. In realtà la democrazia è solo la pietra finale di un edificio che ha le sue fondamenta nel governo della legge, per essere precisi, la santità della libertà individuale e la sicurezza dei diritti della proprietà privata, garantiti da un governo costituzionale rappresentativo».
Evidentemente Ferguson non ha letto un libro appena pubblicato in Gran Bretagna, 1493: How Europe's Discovery of the Americas Revolutionized Trade Ecology and Life on Earth, in cui lo storico Charles C. Mann afferma che il processo di globalizzazione ebbe inizio già con Cristoforo Colombo e le basi del predominio occidentale furono tanto biologiche quanto economiche - una tesi in parte già sostenuta prima di lui dallo storico americano Alfred W. Crosby, che aveva parlato di un vero e proprio imperialismo ecologico, e da Jared Diamond nel suo Armi, acciaio e malattie.

La via di Edgar Morin
Come antidoto alla prospettiva neoliberista di Ferguson viene voglia di suggerire la lettura del recentissimo La voie - Pour l'avenir de l'humanité di Edgar Morin, un pensatore trans-disciplinare e indisciplinato (come ama definirsi) appena uscito in Francia. Qui la «civiltà che abbiamo ereditato» e la «crisi dell'Occidente» sono lette in un'ottica completamente diversa. Si parla di una crisi ecologica segnata dal degrado progressivo della biosfera, di una crisi delle società tradizionali, di crisi demografica, urbana, delle campagne. La civiltà occidentale che produce le crisi della globalizzazione è essa stessa in crisi, con effetti devastanti: un malessere psichico e morale che si installa al cuore del benessere materiale - quella «intossicazione» da consumismo di cui si sono avute drammatiche testimonianze nei giorni scorsi, a Roma come negli Stati Uniti, con code, risse e spari per accaparrarsi l'ultimo prodotto scontato.
In Civilization non ci si chiede mai se un altro modello sarebbe ipotizzabile. Eppure esiste un altro aspetto, tutt'altro che secondario, del modello occidentale: i pericoli di una cultura egemone che crea contrasti, razzismi, fa crescere identità verticali di credi religiosi, di costumi e abitudini. Manca la capacità di pensare che un'altra società, un altro modello, sia possibile.
C'è insomma un'altra storia. E in questo consistono gran parte delle critiche rivolte a Ferguson. Una storia vista dalla parte dell'Oriente o dell'Africa ad esempio, o dalla parte dei diseredati, dei dannati della terra. Una storia che si basi sull'etica, sulla dignità dell'uomo, di tutti gli uomini; che abbia il coraggio della fantasia e la volontà di percorrere strade nuove.

“il manifesto” 12 gennaio 2011

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