2.3.12

Io ho due papà (da "UNA CITTA')

“UNA CITTÀ” è una rivista forlivese di cui ricevo periodicamente degli estratti per posta elettronica e che mette a disposizione il suo archivio. Una grande distanza che mi separa dai fondatori e redattori della rivista, che tentano di ispirarsi al socialismo umanitario e libertario dell’Ottocento e alle idee di vasta partecipazione democratica. Scrivono di voler essere anche il racconto “di un’altra Italia, quella che senza clamore, e spesso senza aspettare o rivendicare l’intervento dello Stato, affronta i problemi e tenta di risolverli con spirito cooperativo”. Il loro rifiuto – abbastanza evidente - di un’ottica classista rischia di renderli, loro malgrado e nonostante le migliori intenzioni, una delle tante voci che accompagnano la riscossa capitalistico-borghese contro il movimento operaio e le sue conquiste sociali e la costruzione, oggi in atto, di una società che aumenta le disuguaglianze, che moltiplica le povertà, che svuota la democrazia. Il loro fiancheggiare nelle sue evoluzioni il corpaccione  del Pds-Ds-Pd, per quanto cauto e critico, rischia peraltro di rendere sterile una ricerca di ascolto nei confronti della società e del mondo, che è autentica. La mia impressione è che la mancanza di un soggetto di riferimento forte (il “lavoro” organizzato in classe) e di un progetto generale di trasformazione del mondo (il socialismo) le lotte per libertà vecchie e nuove perdano forza, diventino settoriali e lobbystiche e che i diritti civili conquistati diventino precari, sottoposti a una restaurazione incombente dell’intolleranza religiosa e dogmatica che facilmente s’accompagna a un dominio capitalistico sempre più duro e meno apportatore di progresso.
Queste considerazioni vetero-marxiste mi hanno consentito di vincere la ricorrente tentazione di abbonarmi, determinata soprattutto dalle interviste di “Una città” e dal loro stile, il cui scopo evidente è quello di capire senza pregiudizi (tutt’al più con umana simpatia) e di approfondire e che le rende rare e preziose nel tempo del giornalismo corrivo e/o fazioso. Riprendo qui un ampio stralcio da un’intervista recente, assai lunga e dettagliata, dal numero di febbraio 2012, a una coppia di genitori omosessuali, membri di una associazione di “famiglie arcobaleno”. Nel sito ove è “postata”, sezione “storie” non trovo il nome di chi ha raccolto l’intervista, che in ogni caso ringrazio per la cura con cui l’ha fatto e per la chiarezza con cui l’ha trascritta. (S.L.L.)   

Io ho due papà
Intervista a Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti

Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti vivono a Roma assieme ai figli Lia, di quasi sei anni, e Andrea, tre anni e mezzo. Sono impegnati in Famiglie Arcobaleno, associazione di genitori omosessuali.

Com’è maturata la decisione di diventare genitori?
Tommaso. Ci abbiamo ragionato per molti anni; ci siamo chiesti se farlo, con chi farlo, come farlo. Eravamo abbastanza tranquilli sul fatto che una coppia dello stesso sesso fosse in grado di tirare su bene un bambino; le preoccupazioni erano altre, erano di carattere sociale, culturale, e anche rispetto all’accettabilità della soluzione scelta. All’inizio ci siamo brevemente soffermati sulla possibilità di avere figli con amiche, però, insomma, è una cosa che non è andata in porto, anche se non è un’opzione che in assoluto non possa funzionare. Quindi ci siamo abbastanza presto orientati verso la "gestazione per altri” o, come si dice in Italia, "utero in affitto”, un’espressione che noi non amiamo affatto. In questo caso a preoccuparci era la dimensione economica e il possibile sfruttamento della donna. Dopo un primo incontro con l’agenzia americana, c’è stato un intervallo di quattro anni, dopodiché abbiamo deciso di ripartire.
Gianfranco. Quando abbiamo cominciato a pensarci, sentendo parlare di "utero in affitto”, francamente per me era molto difficile accettare che questa potesse essere la "nostra” soluzione per diventare genitori. Anche perché mi ricordo di questi articoli un po’ scandalistici, molto poco approfonditi, molto partigiani. Insomma, quando abbiamo cominciato a parlarne, per me era veramente assurda l’idea che noi si potesse fare una cosa di questo tipo. Col tempo, approfondendo il discorso, cominciando a conoscere le coppie che l’avevano fatto, ma anche le madri "portatrici”, le cose hanno cominciato a prendere un altro spessore, si sono complicate, non era più bianco/nero, sì/no, cominciava a diventare: "Questo può andare, questo ancora non mi torna”. In particolare mi lasciava perplesso il discorso economico, ma soprattutto non capivamo il livello di coinvolgimento e anche le motivazioni che spingevano una donna a portare avanti una gravidanza per altri.
Ancora oggi una delle domande che più spesso ci vengono poste è: "Come fa una donna a dar via il bambino che ha portato per nove mesi?”, che è la domanda che avevamo anche noi. Poi però scopri che, cambiando i termini della questione... Voglio dire, Nancy, la persona che ha portato i nostri bambini, non si percepisce come madre, bensì come una persona che sta aiutando una coppia sterile ad avere bambini, mettendo a disposizione il proprio corpo. Le donne che fanno la gestazione per altri non considerano quel bambino il proprio figlio, tanto più che spesso la "portatrice” non è la madre genetica. Parliamo comunque di donne consapevoli di quello che stanno facendo: non sono donne bisognose che stanno vendendo il proprio utero per risolvere una questione finanziaria, non sono mosse dal bisogno.

Potete spiegare come funziona la gestazione? Dicevate che le donne coinvolte sono quasi sempre due, perché?
Tommaso. C’è una donatrice d’ovulo e una portatrice, questi sono i termini tecnici. Per diversi motivi. C’è un motivo di ordine medico: una donatrice d’ovulo fa una piccola terapia ormonale per donare numericamente più ovuli, la portatrice fa una terapia ormonale per essere più ricettiva nel momento dell’impianto. Se fosse un’unica donna dovrebbe sottoporsi a un doppio trattamento.
Poi, di solito, sono due tipi di donna diversi. Le donatrici tendono a essere donne giovani, che casomai non hanno ancora figli, mentre le portatrici sono donne meno giovani che hanno già avuto gravidanze. Infine c’è un motivo giuridico e cioè che negli Stati Uniti c’è una giurisprudenza consolidata in base alla quale le portatrici non hanno particolari diritti sul bambino, invece la portatrice che è anche donatrice ha una posizione legale meno chiara. Questa dunque è una formula che funziona meglio in tutti i sensi.

La donatrice è anonima?
Tommaso. Quando l’abbiamo fatto noi erano perlopiù anonime, adesso non lo sono più. A me dispiaceva un po’ di non poterla conoscere e soprattutto che i bambini non potessero farlo. Abbiamo ottenuto che fossero disposte a incontrare i bambini alla maggiore età.
Mentre la donatrice viene selezionata da una banca dati, il rapporto con la portatrice è più stretto, lì c’è proprio una sorta di incrocio di questionari in cui sia la coppia che la portatrice spiegano bene per iscritto tutto quello che cercano. Per esempio: se desiderano avere contatti quotidiani, settimanali, mensili, se vogliono mantenere un rapporto anche dopo la nascita del bambino oppure no… I risultati dei questionari vengono poi incrociati in modo da ottenere quello che teoricamente è un buon abbinamento, dopodiché ci si incontra e si vede cosa succede.

Nancy chi è?
Tommaso. Nancy è un’infermiera specializzata, abbastanza mattacchiona, è una donna di carattere, decisa, molto comunicativa, che fa barca a vela, roller skating, con quattro figli che si è tirata su quasi da sola. È una californiana cresciuta in una piccola città segnata dalla controcultura degli anni 60; si è sempre trovata bene nei contesti un po’ alternativi. Era da molti anni che voleva fare una gestazione per altri, ma aveva aspettato il momento in cui fosse completamente autosufficiente perché voleva essere sicura che non ci fosse una spinta di carattere economico. È molto legata a un cugino gay che le ha parlato spesso del dolore di non aver potuto essere padre…
Gianfranco. È una persona potente, in qualche modo. Durante la gestazione abbiamo conosciuto anche la sua famiglia, che ci ha accolto con generosità, ci portavano regali, si pranzava tutti assieme; Nancy è venuta tre volte a trovarci in Italia, è stata nostra testimone di nozze nel 2008.

Si può parlare di una sorta di famiglia allargata?
Tommaso. Sì e no, c’è un grande affetto ma anche un grande senso del rispetto delle distanze e dei limiti.
Gianfranco. È un rapporto non codificato, va un po’ inventato. Nancy non è un’amica, forse di più, forse di meno. Non è una persona di famiglia, ma sicuramente c’entra molto con la nostra famiglia, per cui è complicato dire che tipo di relazione ci sia… Loro, i bambini, sanno che lei è la persona che li ha portati.
Tommaso. Anche nell’ambito delle Famiglie Arcobaleno si sta molto riflettendo sui termini da usare; mancano un po’ "le parole per dirlo”. D’altra parte parliamo di rapporti inediti. Tant’è che anche Nancy riflette sul tipo di relazione da avere con noi. Comunque finora sta andando tutto bene, non ci sono stati mai dissapori.
Gianfranco. Nancy è cattolica. Un aneddoto: quando è venuta a Roma, si è andata a confessare a San Pietro. Le ho chiesto se avesse confessato anche che ha fatto la Gpa: "No, che c’entra, ho detto che mi ero divorziata e il confessore mi ha detto di fare pace con mio marito, ma la gestazione per altri, che c’entra?”.

Sul piano giuridico come stanno le cose?
Gianfranco. In realtà, in California i tribunali ritengono che i bambini nati in questa situazione siano figli della coppia che ha avviato l’intero processo di procreazione. Quindi nel nostro caso il giudice ha stabilito che noi eravamo i due genitori prima della nascita dei due bambini. Ma lo stesso giudice dà anche indicazioni su come compilare il certificato di nascita, in base alle esigenze nostre e dei bambini: può disporre che si indichi un solo genitore perché se tu porti in Italia un certificato di nascita con due genitori dello stesso sesso, per l’anagrafe risulta incongruente, inaccettabile. Così i nostri figli, come cittadini americani, hanno due papà, come cittadini italiani ne hanno soltanto uno.

In caso di morte o di separazione cosa succede? Vi siete in qualche modo tutelati?
Tommaso. Abbiamo fatto testamento e nel testamento indichiamo un tutore. In realtà abbiamo fatto poco, dovremmo fare di più, nel senso che si può, ad esempio, raccogliere dei documenti in cui parenti e conoscenti attestano che si tratta di una coppia di lunga durata e che il bambino si sente figlio di quelle due persone. Con il contratto d’affitto o le bollette si può documentare la convivenza. Si possono fare tante cose, tutte per far sì che, in caso di morte, il tribunale decida di dare il bambino al partner. Però, attenzione, il tribunale non è obbligato, perché se muore il genitore biologico i nostri figli sono orfani.
Gianfranco. Questa è la premessa fondamentale. Nel nostro caso, infatti, a decidere della sorte del bambino è un giudice tutelare che deve appunto nominare un tutore. Nel suo testamento il genitore legale propone l’altro genitore come tutore e fornisce una serie di pezze d’appoggio. Se il giudice tutelare non segue le indicazioni del defunto - nonostante le dichiarazioni di parenti, i conti in banca intestati insieme, insomma tutte le prove evidenti che il bambino ha una continuità affettiva con il genitore non legale - è evidente che quel giudice sta facendo una scelta al minimo omofobica, ma se vuoi anche disumana. I nostri legali ci dicono che è molto raro che il giudice non tenga conto delle indicazioni del genitore legale, però non si sa mai.
In Famiglie Arcobaleno fortunatamente non è ancora morto nessuno. Quello che invece può succedere è che le coppie si separino e lì non c’è carta che tenga: se il genitore legale decide che l’altro genitore non ha più titolo per vedere il bambino, ha tutti i diritti di farlo.
In questo senso dico che, paradossalmente, mentre sulla morte siamo abbastanza coperti, non è così nella separazione…

Dicevate che la donna portatrice non deve essere in stato di bisogno...
Tommaso. Beh, il motivo per cui noi, e direi sostanzialmente tutti i soci di Famiglie Arcobaleno, andiamo in Canada o negli Stati Uniti e che lì ci sono queste garanzie. In Canada in realtà è illegale dare un compenso alla portatrice, però è accettato il fatto che si possa, come dire, dare dei rimborsi per le spese che affronta. Sono comunque dei compensi che non sono né puramente simbolici ma neanche tali da costituire l’incentivo determinante. Quando ci rimproverano di "comprare” la gravidanza, noi rispondiamo: "Ma tu faresti un bambino per altri per questa cifra?”. Perché per quanto sia una cifra che grosso modo corrisponde a un anno di stipendio, nessuno lo farebbe solo per quello, a meno che non sia in una situazione di difficoltà economica. O come nel nostro caso abbia una motivazione profonda.
Gianfranco. Che poi c’è anche questa strana cosa per cui alle donne viene sempre chiesto di fare le cose gratis: "Che snaturata questa persona, ha preso dei soldi...”. Scusa, ma perché dovrebbe mettere a disposizione il proprio corpo in maniera gratuita? Parlandone con Rodotà, lui diceva: "Sì, io accetterei purché fosse un dono gratuito”. Perché? Voglio dire, in fondo quella donna mette a disposizione il proprio corpo per diversi mesi. Il medico senza frontiere che va in Africa riceve un compenso. Compie una scelta nobile, ma non lo fa gratis. Il tempo che queste persone mettono a disposizione è prezioso e in fondo quel compenso non è eccezionale.
Tommaso. In India e in alcuni paesi dell’Europa orientale, e in generale laddove quella stessa cifra cambierebbe completamente la vita di una persona e della sua famiglia, non lo facciamo. C’è anche chi sostiene che lì il tuo denaro sarebbe più utile eccetera, però secondo me si entra in una zona eticamente scivolosissima in cui non sai poi fino a che punto queste donne siano veramente libere di scegliere; ci possono essere pressioni da parte della famiglia, del marito... insomma, è tutto un altro modo di fare gestazione per altri; quello sì che è "utero in affitto”...
Tommaso. Ci sono grosse spese mediche, soprattutto negli Usa, spese legali, compensi d’agenzia. Però non è una scelta solo per super ricchi. C’è chi fa un mutuo... Certo non è per tutti e questa è un’ingiustizia. Idealmente, secondo me, dovrebbe essere una cosa sostenuta dallo Stato, dalla mutua, ma so di parlare di sogni.

I vostri familiari e amici come l’hanno presa?
Tommaso. Quasi tutti bene...

Dicevate che questa è anche una scelta che rende assolutamente visibili e che costringe a socializzare...
Tommaso. È così, nel senso che uno la propria omosessualità può renderla più o meno percepibile agli altri, ma quando hai un bambino o ti inventi proprio le frottole più inverosimili oppure devi dire la verità: "Questo bambino ha due papà”, "Questo bambino ha due mamme”. Devi farlo per lui. Devi assolutamente socializzare, è una cosa imprescindibile e cambia completamente il modo di vivere tuo e del bambino.

I bambini cosa sanno?
Tommaso. I bambini conoscono perfettamente Nancy, hanno questi quadernoni con le foto della gravidanza, del parto, eccetera. Sanno che sono stati nella pancia di Nancy, prima Lia e poi Andrea. Sanno che per fare il bambino ci vuole il semino, l’ovetto e la pancia; i maschi hanno solo il semino, le femmine hanno l’ovetto e la pancia, quindi a noi servivano un ovetto e una pancia, allora abbiamo chiesto a due signore di aiutarci, una ci ha dato l’ovetto e Nancy ci ha dato la pancia, così... Non è difficile.
Gianfranco. Man mano che crescono dal punto di vista cognitivo aggiungiamo delle cose. Ad ogni stadio del bambino racconti la verità così come la può capire, poi, dopo altri due anni, approfondisci.
Tommaso. Per esempio, per ora sui loro quadernoni hanno visto le foto delle donatrici e non gliene importa nulla, ma sicuramente fra qualche anno saranno invece incuriositi.
Gianfranco. Per Lia ora la storia è diventata un po’ più complessa, è entrata nella fase della comprensione che siamo due papà, ma che uno dei due non ha le tutele legali. Nelle famiglie arcobaleno i bambini intorno ai sei o sette anni cominciano a comprendere che per lo Stato italiano i due genitori sono diversi. Sono fasi delicate. È anche per questo che si sta in Famiglie Arcobaleno… Voglio dire, nella vita noi facciamo i salti mortali e anche il mondo intorno a noi fa i salti mortali, però la realtà è questa.
Tommaso. Però, insomma, sono bambini abbastanza scafati e mi sembra che Lia sia quella che dà più informazioni, per quanto rudimentali, di educazione sessuale ai suoi compagni di classe.
Gianfranco. Infatti, involontariamente fanno nascere situazioni di imbarazzo. Lia sa già che per fare un bambino servono un semino e un ovetto e una pancia, la maggior parte dei suoi compagni no, per cui si tratta di intervenire su un tema che molto spesso è ancora tabù nelle famiglie. Per esempio, alcuni dei libri che abbiamo portato a scuola sono stati considerati un po’ troppo audaci… E ti parlo solo di educazione sessuale; poi c’è l’omosessualità. Adesso in Famiglie Arcobaleno qualcuno ha proposto che si usino di più le parole "gay” e "lesbica”, perché "omosessuale” e "omosessualità” dette a dei genitori etero scatenano subito delle fantasie e delle paure. Forse il termine giusto in questo contesto è omoaffettività.
Tommaso. È difficile far passare l’idea dell’amore fra due persone dello stesso sesso senza entrare nell’eros boccaccesco.
Gianfranco. Molti, quando vedono una persona omosessuale, la immaginano immediatamente che compie atti sessuali…

A scuola come sta andando?
Tommaso. Sicuramente il nido e la materna sono più facili. Vedremo alle elementari. Bisogna lavorare molto con la direttrice scolastica, come primo interlocutore, e poi con gli insegnanti. Quando ti dicono: "Non c’è nessun problema, per noi i bambini sono tutti uguali”, ecco è il momento in cui bisogna preoccuparsi! Questi bambini non sono uguali agli altri e nel momento in cui a scuola diranno: "Io ho due papà” non bisogna dargli disconferme.
Gianfranco. Come Famiglie Arcobaleno facciamo anche della formazione con gli insegnanti e poi interveniamo direttamente nei circoli e nelle scuole. Recentemente è successa una cosa che mi ha stupito e dato modo di riflettere. Siamo andati in una scuola dove da due anni hanno inserito una bambina. La mamma raccontava che le maestre erano aperte e carine, invece trovandoci lì con le stesse maestre aperte e carine a un certo punto sono uscite certe domande, che la mamma è rimasta sconvolta, tipo: "Ma perché vi fate chiamare entrambe mamme?”, "Quando siete venute qui io ho pensato che voi ostentavate...”. Insomma domande che rivelavano dell’omofobia interiorizzata e anche una non comprensione. Abbiamo capito che non basta parlarne una volta, bisogna tornarci su e rispiegare perché noi sicuramente portiamo problemi o comunque portiamo degli elementi di discussione. Diamo sempre la colpa agli insegnanti, alla scuola che non capisce, però bisognerebbe anche mettersi nell’ottica di chi improvvisamente si ritrova con bambini con due mamme o due papà e magari non sa niente di tecniche di fecondazione assistita, non sa niente di che cos’è l’omosessualità, non sa affatto se un bambino possa vivere bene con due mamma o due papà. Non basta un colloquio, bisogna fare un lavoro più continuativo e non troppo invasivo, perché vanno capiti e rispettati i tempi…
Per esempio, le maestre di nostro figlio hanno improvvisamente reagito dicendo: "Ok, non si dice più la parola mamma”, cioè hanno abolito la parola mamma! Oppure avevano deciso che, mancando la figura femminile, con Andrea dovevano essere molto più affettuose, compensando in qualche modo. E sappiamo di un paio di famiglie che hanno ritirato i bambini da una scuola perché c’eravamo noi (però invece tutti quelli che sono rimasti hanno creato un gruppo veramente affiatato). Insomma, sai com’è: tu dici tre cose e pensi di aver passato e fatto assimilare tutto il pacchetto, mentre non è così. Devi lavorarci molto…

Immagino che la domanda classica sia come cresce un bambino senza la figura materna...
Tommaso. Ci siamo molto documentati: c’è una valanga di studi psicologici e non emergono problemi particolari dipendenti da questo fatto. Poi questo è confermato dalla nostra esperienza: ormai conosciamo penso un paio di centinaia di famiglie omogenitoriali e i bambini vengono su bene. Devo dire che noi non crediamo nella necessità della figura materna o paterna. Di questo troviamo conferma anche in indirizzi psicologici che al massimo parlano di necessità di una funzione di accoglienza e di una funzione di contenimento, che però possono anche scambiarsi fra le persone nel corso della giornata.
Quando ci viene posta questa domanda, io rispondo sempre: "Va bene, cos’è che la figura materna fa o dà o è?”. Alla fine se uno la spezzetta viene fuori che è fatta di cose che noi comunque facciamo o diamo. Il problema secondo me è piuttosto l’aspettativa della figura materna, cioè il fatto che il bambino cresce e si trova in un mondo che gli dice che ci dovrebbe essere una madre. È la "mistica della maternità”: si è cominciato a parlarne cinquant’anni fa, dopo Betty Friedan.

In una fase come quella adolescenziale, in cui il corpo cambia, per una bambina forse non avere quella confidenza madre-figlia…
Gianfranco. Non so cosa succederà, proprio non lo so. Penso che riusciremo a trovare le modalità per parlare anche di questo. Non credo che ci siano argomenti tabù per cui un padre e una figlia non possano parlare di mestruazioni o di altro. Se poi dovesse aver bisogno di parlare con una donna, ci sono le mie sorelle, ci sono le mamme dell’associazione. Questo problema non ce lo siamo posti; sai, non voglio dire che navighiamo a vista, ma pensiamo che sia meglio affrontare le situazioni man mano che si presentano. La mia preoccupazione è un’altra ed è comune alle coppie come noi. Un mesetto fa ne parlavo con una mamma psicologa. Proprio lei mi ha detto: "Noi non ci rendiamo conto che, oltre a tutto il grande stress della responsabilità genitoriale, dobbiamo mettere in conto che viviamo in più un grande senso di precarietà, a cominciare da tutte le preoccupazioni legali, la lotta all’omofobia...”. Quando i figli stanno male, le mamme e i papà generalmente vengono rassicurati: non è colpa vostra, non vi preoccupate; noi invece quando i nostri figli stanno male abbiamo immediatamente l’occhio puntato: "Ve l’avevamo detto che non eravate come gli altri”. Anche per questo ora qui a Roma stiamo organizzando dei gruppi di autoaiuto per confrontarci su queste questioni.
Tommaso. Per me c’è anche un’altra preoccupazione e riguarda il difficile equilibrio tra la necessità di essere visibili, di impegnarci apertamente per migliorare la condizione dei nostri figli, e la preoccupazione di non esporli troppo. D’altra parte, a loro piace molto stare con le altre famiglie arcobaleno, anche la situazione del Pride è divertente.

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