15.3.12

Pensare e/o pagare. Le dialettiche dell'Illuminismo (di Edoardo Sanguineti)

Si può celebrare, tra breve, volendo, il secondo centenario (il 30 settembre, per l'esattezza: Diderot era morto il 31 luglio), della celebre risposta di Kant alla questione Che cosa è l'illuminismo?. Kant spiegava, come è noto, che «l'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità, che egli deve imputare a se stesso», aggiungendo che «minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro», e che l'imputabilità deriva «dalla mancanza di decisione e del coraggio di fare uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro». A motto dell'illuminismo Kant innalzava, inoltre, le parole Sapere aude, «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza».
Qui non è soltanto da rilevarsi il carattere imperativo morale che, presso Kant, la rivoluzione ideologica borghese viene ad assumere. È forse più notevole, e forse anche più tipicamente kantiana, la coscienza del fatto che, per pigrizia e viltà, gli uomini, ormai naturalmente maggiorenni, «rimangono volentieri per l'intiera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori: ed è così comodo essere minorenni! Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene etc, io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione». Dove l'opposizione pensare/pagare meriterebbe di essere assunta come una sorta di secondo motto.
Ma conviene ora indicare i tre nodi centrali del memorabile articolo kantiano: la rivendicazione del diritto di «fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi», come della «più inoffensiva di tutte le libertà», compensata da una tranquilla rinunzia all'«uso privato» della medesima ragione, «in un certo impiego o funzione civile», nel che è come segnata la radice della tipologia moderna della doppia verità; l'accento posto sopra la «materia religiosa» come luogo capitale, e per eccellenza conflittuale, per la propagazione dei lumi, in cui si esprime quella che Hegel definirà come «la lotta del rischiaramento con la superstizione»; e infine la necessità dello sviluppo del «libero pensiero» quale «libertà di agire», sino a che esso pervenga a affermarsi «sui principi del governo». E qui è indispensabile pensare a un'altra celebre, e più tarda, risposta kantiana, quella alla questione Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in cui la tendenza della specie al progresso morale universale è fondata sopra «la partecipazione al bene con passione», sopra l'«entusiasmo» suscitato dalla rivoluzione francese, garanzia profetica di «un progresso verso il meglio che non conoscerà più un totale regresso», poiché «un tale fenomeno, nella storia dell'umanità, non si dimentica più».
È in queste pagine del novantasette, del resto, che Kant offre la propria vera risposta conclusiva alla definizione dell'illuminismo, quando afferma che illuminare il popolo sopra i suoi diritti naturali è il compito dei «liberi cultori del diritto», cioè dei «filosofi che per la libertà che si permettono riescono odiosi allo Stato, che vuol sempre solo dominare, e col nome di illuministi sono diffamati come gente pericolosa per lo Stato». Non fa meraviglia che Marx, in accordo con Heine, abbia potuto indicare in Kant colui che scrisse la teoria della rivoluzione francese.
Questa ulteriore opposizione, pensare/dominare, è quella che Horkheimer e Adorno posero al centro della riflessione nella loro Dialettica dell'illuminismo, rovesciando nell'identità di sapere e potere, nel modello enciclopedico della conoscenza intellettuale come somma delle capacità operative concrete, e concretamente separate, non soltanto la contraddizione storicamente determinata della filosofia dei lumi, ma, attraverso questa, la contraddizione stessa della cultura dell'uomo occidentale, planetariamente egemone. Non si tratta soltanto, allora, di risalire al modello baconia-no e alla configurazione generale della scienza moderna, ma di tracciare l'intiero arco dell'illuminazione intellettuale, da Omero a Sade, per tentare di cogliere quell'errore originario che conduce all'attuale barbarie ritornata, nel principio stesso della ratio, calcolatrice e utilitaria.
Nel cortocircuito che si può stabilire tra la risposta kantiana e la critica dei francofortesi è quasi incisa in emblema, più che la storia della questione, la vicenda stessa dell'illuminismo, se pensiamo che Horkheimer e Adorno ribadiscono, in apertura, come petizione di principio, che «la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico», avvertendo tuttavia che «il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali a cui è strettamente legato, implicano già li germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque». E concludevano proclamando che, «se l'Illuminismo non accoglie in se la coscienza di questo momento regressivo, firma la propria condanna».
La questione dell'illuminismo, così dialetticamente dispiegata, è la questione teorica e pratica dominante, nel crepuscolo del nostro millennio: superare, con la ragione dialettica, il dominio violento della ratio. Il problema può essere ripreso puntualmente dalle pagine introduttive dell’Anti-Duhring di Engels, dove egli scriveva, tra l'altro, che l'illuminismo francese aveva dato i suoi capolavori dialettici al di fuori della filosofia propriamente detta: nel Nipote di Rameau di Diderot e nel Discorso sull'origine dell'ineguaglianza di Rousseau. Perché infine l'illuminismo dialettico, nella sua forma compiuta, è là dove gli autori della Dialettica dell'illuminismo non vollero veramente riconoscerlo: nel materialismo storico.

"L’Unità" 31 luglio 1984

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