19.3.12

Perché sono comunista (di Concetto Marchesi)

Le parole soverchiamente benigne di Raffaele De Grada non valgono ad attenuare il mio turbamento nel presentarmi, questa volta, a voi cittadini, amici e compagni di Milano. Parlare di sé è impresa ambiziosa e fastidiosa e mortificante spesso, soprattutto se non ci sia un mutamento di rotta che abbia a un certo punto cambiato o spezzato la direzione della nostra vita. Ma pure per chi ha vissuto lunghi anni il guardare indietro nella propria esistenza è quasi un ripercorrere periodi importanti, capitali della storia umana.
Perché sono diventato comunista?
Altre volte mi è stata fatta questa domanda. È un perché di anni lontani, che mi riporta alle vendemmie e alle falciature della mia campagna catanese. Filari e filari di viti dentro un'ampia cerchia di mandorli e di ulivi e un suono di corno che radunava le vendemmiatrici.
Vigilavano i guardiani con mille occhi: ed esse sparivano curve nel folto dei pampini, da cui rispuntavano colmi canestri ondeggianti su invisibili teste. All'Ave Maria l'ultimo suono di corno: e la giornata finiva con un segno di croce.
Ma i piedi scalzi dovevano correre per chilometri prima di giungere a notte in un tugurio dove era il fumo di un lucignolo e quello di una squallida minestra. Queste cose sapevo e vedevo; e a giugno mi accadeva più volte di scorgere uomini coperti di stracci avviarsi verso la piana desolata con un pezzo di pane nella sacca e una cipolla e la bomboletta di vino inacidito, destinato, secondo il costume, all'uso dei braccianti.
Così negli anni della puerizia cresceva in me un rancore sordo verso l'offesa che sentivo mia, che era fatta a me e gravava su di me come una insensata mostruosità, perché insensate e mostruose mi parevano le ragioni addotte a giustificarla.
Avevo l'animo dell'oppresso senza averne la rassegnazione.
Cosi nell'età in cui si comincia ad essere qualche cosa, sentivo nella causa dei lavoratori la mia stessa causa, mentre la reazione all'ambiente familiare borghese o piccolo borghese favoriva la proletarizzazione del mio spirito, a cui, negli anni dell'adolescenza, si aggiungeva un'elementare consapevolezza dottrinaria. Proudhon prima, — di cui non avvertivo ancora la verbosità prolissa e paradossale e la concezione tra utopistica e liberale borghese — mi percoteva con la sonante apostrofe al Michelet, il quale ripigliando la celebre frase « la proprietà è un furto», avvertiva sarcasticamente:«Se è cosi, sono in Francia 25 milioni di proprietari che non si lasceranno spogliare». E la risposta di Proudhon mi era fitta nella memoria: «sì, quella frase è mia, quella definizione è mia, essa è il più grande avvenimento del regno di Luigi Filippo, essa è l'unico bene che io abbia sulla terra, e, quanto ai 25 milioni di proprietari, chi vi dà il diritto di supporre che si abbia bisogno del loro consenso?».
Dopo Proudhon, Mazzini, col suo misticismo profetico e il suo visionario solidarismo di classe; e poi, il gran fascio di luce, il Manifesto di Londra del 1848 (“il Manifesto del partito comunista,di Marx ed Engel” n.d.r.), il messaggio rivelatore che comprendeva il passato, il presente, l'avvenire.
Alla lettura di quelle pagine una solida gioia empiva l'animo mio. Da allora compresi che una guerra era cominciata nel mondo per una infallibile vittoria: compresi che del proletariato in marcia nessuna forza avrebbe arrestato il cammino. E, in verità, amici e compagni, quell'opuscolo di 23 pagine, pubblicato nel febbraio di 108 anni addietro, è l'opera più ricca di germi che il secolo diciannovesimo abbia prodotto. Esso non parla di ciò che è bene e di ciò che è male, ma di ciò che avviene e diviene nella società umana; non parla in nome del diritto naturale o della ragione suprema, ma in nome di una realtà che, piaccia o no, bisogna riconoscere nel fluire stesso delle cose, nella unità e continuità di tutta la storia, la quale finora è stata una storia di classi in urto fra di loro. Quell'opuscolo era l'opera di due uomini di genio che dai moti rivoluzionari dei paesi europei — Inghilterra, Francia, Belgio, Germania — avevano tratto la dottrina, lo spirito, l'attività di un partito che fra poco avrebbe scosso il mondo: l'Internazionale dei lavoratori; e dello strumento di guerra aveva l'esatta formulazione, per enunciati rapidi e lucidi anziché per dimostrazioni.
Diceva ciò che è, non ciò che dovrebbe essere, ciò che accade, non ciò che dovrebbe accadere: ciò che accade necessariamente. E qui sentivo la forza di quelle parole, in questo imperativo della necessità, per cui la storia della borghesia nei suoi vari sviluppi, fino al prodigioso progresso della tecnica, alla conquista dei mercati mondiali e ai conseguenti assetti politici è la storia stessa del proletariato. Senza l'una non ci sarebbe l'altra. Non è da negare l'influsso della dialettica hegeliana sulla gioventù di Marx e di Engels per quanto riguarda l'idea della lotta di classe e il concetto che ogni condizione presente contiene in sé la propria negazione; ma non per questo daremo me a chi vorrebbe dimostrare la ortodossia hegeliana di Carlo Marx la cui dottrina ha dovuto sovvertire radicalmente l'hegelismo per essere una dottrina rinnovatrice...

Dal discorso tenuto al Teatro Nuovo di Milano il 5 febbraio 1956 su invito del gruppo milanese «Amici della rivista Rinascita ». Presentatore Raffaele De Grada. Poi in Umanesimo e comunismo, Editori riuniti, 1958.

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