15.3.12

Ugo Pecchioli racconta la Fgci di Berlinguer

“Jonas” nell’87 si presentava come il “mensile della sinistra giovanile promosso dai giovani comunisti” e usciva come supplemento de “l’Unità”. Nel numero di febbraio, in edicola il primo del mese, pubblicò una testimonianza di Ugo Pecchioli sulla Fgci degli anni 50 diretta da Enrico Berlinguer, raccolta da Fabrizio Rondolino che di “Jonas” era il direttore. Pur nella reticente pudicizia tipica dello stile di Pecchioli, mi pare che contenga notizie di interesse. (S.L.L.)
Dicembre 1950. Enrico Berlinguer  con Giancarlo Pajetta e Ugo Pecchioli
«Nel 49, a 24 anni, lavoravo nel partito di Torino come responsabile della propaganda. Una mattina, aspettando il tram, leggo sul giornale che il Comitato centrale ha deciso la ricostruzione della Fgci, e vedo che il mio nome compare in un lungo elenco del comitato incaricato di preparare il congresso di rifondazione. Ho pensato che forse mi avevano messo perché ero stato partigiano...
Poi sotto trovo il mio nome anche tra i componenti della "segreteria provvisoria", assieme a quelli di Berlinguer, Bernini, Marisa Musu, Peruzzi... Così lessi sul giornale che il mio lavoro era cambiato e che dovevo trasferirmi a Roma.
«Cominciai un'esperienza che durò fino al '55, al Congresso di Milano: la fase costitutiva delta Fgci, la fase di Berlinguer (che lasciò la Fgci nel '56). Arrivato a Roma mi sentivo un po' sconcertato: io ero molto "torinese" e molto giovane, la mia esperienza politica, prima nella 77^ Brigata Garibaldi e poi nella federazione di Torino, non era mai andata al di là del Piemonte. In ogni modo mi incuriosiva molto scoprire l'Italia, per di più in una fase turbolenta, di grandi scontri. Nel '49 la Fgci si ricostituisce all'inizio della fase più aspra del centrismo, della guerra fredda, dell'offensiva conservatrice. Essa rinasce su parole d'ordine molto semplici e molto trascinanti: la pace, prima di tutto, il lavoro (il lavoro dei giovani e degli ex-combattenti per la ricostruzione), la libertà, minacciata da un centrismo scelbiano che ricorreva alla violenza e alla repressione: non c'era manifestazione che non terminasse negli scontri con la polizia. Insomma, grandi, forti e semplici idealità.
«Ci aiutò molto Togliatti, e anche Longo, che fu un prezioso consigliere, a non dimenticare anche altri aspetti propri della vita dei giovani: lo stare insieme, l'accrescere le proprie esigenze, l'organizzarsi per il tempo libero. In quegli anni nacquero le prime organizzazioni di massa di tipo sportivo, ricreativo, culturale. Ci preoccupammo anche di organizzare i più giovani, i "pionieri", con l'aiuto di pedagogisti e uomini di cultura come Lombardo Radice e Gianni Rodari, che fu tra i fondatori e dirigenti dell'Associazione pionieri.
«La Fgci aveva diversi giornali, in quel periodo: “Pattuglia” , un settimanale nostro e dei socialisti, diretto da Dario Valori e da me, con Gillo Pontecorvo redattore capo; "Gioventù nuova", una rivista mensile più di approfondimento, diretta da Berlinguer (io ne ero il vicedirettore); poi i giovanissimi avevano il loro giornale, "Il Pioniere", che raccoglieva una grande simpatia nel mondo della pedagogia progressista. Si fece anche una rivista unitaria culturale, "Incontri", cui collaborarono molti giovani intellettuali e scienziati.
«Naturalmente bisogna tener conto che la Fgci era lo specchio molto fedele della posizione complessiva del partito, anche quindi dei residui di doppiezza ancora presenti, nonostante le grandi novità di Togliatti: l'avvio di una via autonoma al socialismo, l'esaltazione dei grandi valori nazionali, il partito nuovo... Tuttavia anche noi eravamo figli dell'epoca: Stalin era il grande padre, l'Unione Sovietica era la terra dei miracoli, e così via.
«Andai in Urss nel '53, poco dopo la morte di Stalin, lungo un viaggio per la Cina, dove rappresentai la Fgci al Congresso della gioventù comunista cinese, il cui segretario allora era Hu Yaobang. Sia all'andata, sia al ritorno mi fermai a Mosca per alcuni giorni. Stalin era appena morto, e la sua salma era stata collocata accanto a quella di Lenin, nel mausoleo.
«La Fgci in quegli anni ebbe una funzione importante. Le classi dominanti, la Democrazia cristiana, l'Azione cattolica (allora ben diversa) si preoccupavano molto di organizzare e orientare i giovani in senso fortemente conservatore e faziosamente anticomunista. Malgrado questo, tentammo, a dire il vero senza molto successo, un dialogo con i cattolici sui grandi temi della pace e del lavoro. Del resto, molti cattolici si iscrivevano alla Fgci, magari sfidando le ire del proprio parroco, o del maresciallo dei carabinieri (e spesso la conseguenza era l'impossibilità di trovare un posto di lavoro).
«Utilizzavamo forme di lotta oggi dimenticate: per esempio gli "scioperi a rovescio". Si occupava una terra incolta e si cominciava a lavorarla, oppure si avviavano dei lavori di ricostruzione; poi si esigeva il pagamento del lavoro svolto, oppure l'assegnazione della terra. Poi organizzavamo molte iniziative di solidarietà diretta: quando nel '51 ci fu l'alluvione del Polesine organizzammo squadre volontarie di soccorso... mi ricordo che ci procurammo dei barconi a Rovigo per raggiungere Adria isolata e portare soccorso alla popolazione: tornati a Rovigo fummo caricati dalla polizia, perché il questore ci definiva "squadracce rosse"... Insomma, non c'era cosa che non fosse oggetto di repressione.
Eravamo anche fortemente impegnati sul fronte della solidarietà internazionale, in specie con i movimenti di liberazione d'Africa, Asia e America latina e con gli antifranchisti di Spagna. Si organizzavano visite (per lo più clandestine), si raccoglievano fondi, medicinali e viveri per i reparti combattenti.
Nel '54 Berlinguer ed io pensammo di inviare un gruppo di volontari italiani in Guatemala a difendere il regime democratico di Arbenz minacciato da mercenari americani. Avevo in mente come si poteva organizzare la cosa, partendo da Genova. Naturalmente ne parlammo subito con Togliatti che che ascoltò con molta attenzione le nostre ragioni. Ma poi ci avvertì che soltanto il legittimo governo di Arbenz era competente a decidere se e come far ricorso a questo tipo di solidarietà volontaria internazionale. E ci spiegò che situazioni come quella spagnola del '36-'39 non erano facilmente ripetibili.
La questione si risolse pochi giorni dopo con l'abbattimento di Arbenz.
«Di quell'epoca mi piace ricordare la direzione di Berlinguer. Di tutti noi, Berlinguer era il più preparato, quello che invitava sempre alla riflessione politica, all'analisi della realtà alla concretezza delle proposte. Aveva grande cura per lo spirito interno all'organizzazione: i rapporti tra i compagni dovevano essere improntati alla lealtà assoluta, alla solidarietà e anche all'amicizia, ma senza che ciò naturalmente interferisse nel lavoro. La sua sobrietà, la sua capacità di lavoro e di studio, il suo stare lontano da ogni forma di esibizionismo, la sua carica ideale erano per noi un punto di riferimento. Se pensi a che cosa è oggi la politica, fatta in gran parte di trovate, di gesti e di spettacolo... beh, Berlinguer questi vizi non li aveva proprio.
«I dirigenti del Partito allora ci aiutavano molto: Longo, Secchia, e naturalmente Togliatti. Togliatti ci esortava sempre a guardare all'insieme degli orientamenti e dei problemi delle nuove generazioni del dopoguerra come ad una grande «questione» nazionale che si presentava con caratteristiche proprie e unitarie. Ricordo un discorso tenuto nel '47, sulla "capacità di sognare", sull'attenzione che andava data anche a quei giovani che abbracciavano miti di destra, e che tuttavia esprimevano anche cosi un disagio profondo, sul mondo giovanile come realtà che, certo, riproduceva al proprio interno le differenze di classe, ma che in parte anche le superava. C'è un dato unitario nei giovani — diceva Togliatti — che prescinde dalle divisioni di classe.
«Con Togliatti avevamo rapporti molto frequenti. Lui seguiva con grande cura la nostra stampa, e ogni tanto ci mandava le sue osservazioni su bigliettini scritti in inchiostro verde, oppure ci chiamava da lui. Una volta ci chiamò perché su "Pattuglia" era uscita la cronaca a fumetti di uno scontro con la polizia, e alcuni disegni gli sembravano troppo violenti, alcune espressioni troppo tracotanti. Ci spiegò che il nostro linguaggio doveva essere pacato, più convincente.
«Allora si discuteva anche dell'uso e meno del fumetto. Il fumetto sembrava ad alcuni di noi una semplificazione eccessiva; altri (e io ero tra loro) pensavano invece che il fumetto, se usato bene, poteva agevolare un elementare processo formativo. Del resto, allora si procedeva molto spesso per simboli: la coca-cola, per esempio simboleggiava (chissà poi perché) una moda americana e perciò non si doveva bere... Lo spirito critico lasciava un po’ a desiderare.
«Si viaggiava parecchio. Eravamo sempre in giro per l'Italia. E si viaggiava anche male: un viaggio in Sicilia durava una ventina di ore... Berlinguer insisteva molto sul fatto che le nostre visite nelle varie province non dovessero limitarsi alla manifestazione o alla riunione, ma fossero anche occasione per una presa con la realtà dell'organizzazione e della società in genere. Quegli anni di Fgci aiutarono molto i quadri della mia generazione a capire la realtà del Paese, a sprovincializzarsi.
«Intorno al '55 cominciò una fase di declino. Venivano al pettine nodi irrisolti, riguardo alla questione giovanile e alla capacità dei comunisti di capire il cambiamento in atto. I giovani della metà degli anni 50 erano diversi da quelli dell'immediato dopoguerra: ai problemi incombenti nel periodo postbellico che in larga parte e in modi spesso contraddittori erano stati superati, si intrecciavano questioni nuove: quelle proprie di una fase che, a costo anche di gravi lacerazioni sociali (basti pensare all'emigrazione di massa verso il Nord), preludeva all'espansione economica, alla piena occupazione, alle grandi innovazioni produttive, e a rilevanti mutamenti politici, culturali, di costume.
Vi fu un ritardo da parte nostra a comprendere la portata di quel passaggio di fase. Ma di ciò che la Fgci diventerà dopo non tocca a me parlare.
La mia generazione è cresciuta coltivando in un angolino della propria coscienza la speranza della rivoluzione, della palingenesi sociale... E' costato fatica sgomberare il campo da residui di questo tipo.
«Erano anni di grandi prove: chi si iscriveva alla Fgci doveva mettere in conto anche le discriminazioni, le difficoltà, spesso l'ostilità della famiglia... molti giovani comunisti di famiglia benestante sono stati diseredati. E poi organizzare una manifestazione significava scontrarsi con la polizia, ricevere una denuncia; a chi andava nei paesi dell'Est veniva ritirato il passaporto... Tutto ciò creava all'interno dell'organizzazione rapporti di solidarietà molto stretti tra i militanti e i dirigenti.
«Rimpianti? Beh, tutto si può far meglio... Per me furono anni molto importanti. Quando tornai a lavorare a Torino nel ’55, subito dopo la sconfitta della Fiom alla Fiat, l’esperienza vissuta nella Fgci mi aiuto molto. Conoscere realtà diverse, capire che il mondo non si esaurisce entro la cinta daziaria della tua citta, stabilire un rapporto tra ciò che ti è vicino e ciò che è lontano: tutto ciò è stato molto importante.
«Una volta convinsi Berlinguer a comprarsi una moto. Io per molti anni ho avuto una motocicletta, una specie di bottino di guerra che mi era rimasto dal 25 aprite. Lui comprò una vecchia Hariey Davidson, residuato bellico americano, gigantesca... Riusciva appena a guidarla. Ma Berlinguer, che è passato per uno "tutto casa e lavoro", sapeva anche divertirsi. E poi questa sua testardaggine sarda... A me piaceva molto l'alpinismo, e a volte lo convincevo a venire con me: ricordo che, sul Monte Rosa, lui salì fino alla cima anche se stava malissimo: soffriva il mal di montagna, ma non volle gettare la spugna.
«Berlinguer sapeva divertirsi, scherzare, raccontare barzellette... Alcune belle ragazze si innamorarono di lui, ma lui, a differenza di qualcuno di noi, voleva essere a sua volta innamorato, non era per l'avventura.
«Qualcuno ha accusato la Fgci di quegli anni di essere stata un po' bacchettona. Non condivido questo giudizio. Ci sforzavamo piuttosto di introdurre elementi di moralità e coerenza politica, in modi che forse oggi appaiono arretrati. Ma al fondo c'era il tentativo di far valere dei valori importanti: il non fare le cose alla leggera, ecco. C'era da parte nostra una resistenza a ciò che definivamo "americanismo", e che conteneva elementi di lassismo, spinte tutt'altro che progressive. Il nostro tentativo era forse un po' integralistico, perché si cercava di formare un giovane tutto o prevalentemente "combattente", tutto o prevalentemente "militante". D'altro canto c'era anche bisogno di reagire ad una offensiva reazionaria e clericale che ci demonizzava in modi indecenti come amorali.
«Furono anni di grandi tensioni e scontri anche sul fronte culturale. Noi reagivamo a ciò che di negativo si riversava sul mercato culturale italiano: l'apologia di concezioni reazionarie, nazionalistiche, le spinte al disimpegno... Esageravamo, forse. Ma gli anni erano questi».

1 commento:

  1. Un bel ricordo. Curioso quando parla degli scontri con la polizia dei giovani comunisti. Non sembra la stessa persona che pochi anni prima di questyo articolo veniva chiamato Pekkioli e invocava la linea dura contro il movimento degli "untorelli" (così battezzati da Berlinguer).

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