2.4.12

L’ultimo dei “nouveaux philosophes” (di Jean-Pierre Garnier)

Il testo che segue è di un sociologo marsigliese, Jean-Pierre Garnier, ed è – stilisticamente - una “stroncatura” del libro su Camus di un intellettuale parigino assai di moda, tal Michel Onfray, ma meditata, documentata, argomentata. La ragione per cui lo “posto” è anche italiana. Teorici, brillanti o meno brillanti, della “sinistra del sì”, edonista e prammatica, hanno a lungo funestato la vita culturale del nostro paese e alcuni di loro continuano a pontificare come se la crisi non avesse dato un duro colpo alle loro teorizzazioni. (S.L.L.)

Michel Onfray
Per chi desideri conoscere il pensiero di Albert Camus e, eventualmente, penetrarlo, sarà sufficiente leggere la sua opera. Nonostante sia profonda, essa ha il merito di essere chiara. Da questo punto di vista, il lavoro che Michel Onfray gli ha appena consacrato non è di alcuna utilità (Michel Onfray, L’Ordre libertaire. La vie philosophique d’Albert Camus, Flammarion, Parigi, 2012). In compenso, per chi si interessasse alla visione del mondo, e soprattutto di se stesso, di questo filosofo di successo, la lettura di questa summa è indispensabile.
Camus visto da Onfray non è altro che lo specchio in cui quest’ultimo si rimira e ammira.
«Lettore avvertito, libero, impermeabile alle formattazioni accademiche», «nietzscheano di sinistra», «anarchico costruttivo», «filosofo edonista, pagano, pragmatico», «figlio di poveri e fedele ai suoi»: questa descrizione lusinghiera ha tutte le caratteristiche, per chi ha letto Onfray, di un autoritratto. Tranne il finale: «Egli aveva tutto per dispiacere ai parigini influenti».
A leggere gli elogi pubblicati su “Marianne” e “Le Nouvel Observateur”, e quelli di Le Point, al limite del panegirico, che celebrano l’apparizione dell’opera, non solo piace ai «Parigini», cioè ai giornalisti, ma essi sembrano addirittura andarne matti. Non senza qualche ragione.
In questo brodo che presume di distillare l’essenza del pensiero di Camus, condito di quadri sommari sulla vita dell’autore destinati a dimostrare il rigoroso «adeguamento tra l’opera e l’esistenza», si ritrovano i miscugli che fecero furore sotto il regno di Mitterrand, durante il quale l’indebolimento del senso critico andò di pari passo con l’abbandono degli ideali progressisti. A cominciare dall’equiparazione dei torti dei fascisti e dei «marxisti», assimilati agli stalinisti – La peste, per esempio, viene usata come pretesto per ricordare che «ieri poteva essere nera o rossa».
Si compone così sul filo delle pagine la sfilata degli stereotipi che fecero la fortuna, tre decenni prima, di Bernard-Henri Lévy e colleghi. Camus, sancisce l’autore, «non crede all’Uomo nuovo auspicato sia da Marx e Lenin, che da Mussolini e Hitler. Egli non crede all’Uomo totale dei marxisti o al Reich ariano dei nazisti». E dunque, Onfray, ultimo dei «nuovi filosofi»? Sono lontani quegli anni ’70 del Novecento in cui dei giovani pensatori, dopo qualche anno di impegno nel maoismo mondano, potevano passare per sovversivi riciclando i luoghi comuni del pensiero conservatore. È dunque dichiarandosi prima di tutto anarchico che Onfray, in linea con i suoi gloriosi predecessori, si presenta come cantore anticonformista di un «ordine libertario» immaginato da Camus.
Fissare quest’ultimo nella figura emblematica del «Giusto», identificarlo con il giusto mezzo, implica una singolare rilettura della storia. A cominciare dall’elenco dei misfatti, che hanno lo stesso peso nella bilancia di Onfray, commessi dalla repressione colonialista in Algeria e dagli indipendentisti. Per portare a compimento ciò che funge da dimostrazione, il biografo ha giudicato opportuno inserire nel suo lavoro una serie di fotografie sinistre che hanno lo scopo di impressionare il lettore piuttosto che farlo riflettere. Vi si trovano alla rinfusa le atrocità commesse «da una parte e dell’altra»: immagini dei gulag e dei campi di sterminio, la ghigliottina eretta dal «Terrore di Robespierre» e i cadaveri mutilati dai «terroristi del Fronte di liberazione nazionale (Fln)», i civili russi impiccati dai soldati della Wehrmacht e un collaborazionista fucilato dai partigiani francesi, un bimbo contaminato a Hiroshima e una ragazzina sgozzata dai «ribelli» algerini...
Per fornire un che di filosofico alle abituali diatribe, che egli ha fatto sue, scatenate dalla destra contro i «gauchistes», Onfray ci mette del suo. Così arriva a entusiasmarsi per una «sinistra dionisiaca», che «dice “sì” dando radicalmente le spalle a una sinistra del risentimento che dice “no”», la prima animata, come è giusto, dalla «pulsione di vita» e la seconda, ben inteso, dalla «pulsione di morte». Una dicotomia posta sotto il segno di un «gramscismo mediterraneo», dato che Antonio Gramsci scampa miracolosamente, non si sa bene perché, alla vendetta del filosofo «libertario». Quanto alle questioni più strettamente filosofiche, si è di fronte a una psicoanalisi sommaria, il cui manicheismo non ha nulla da invidiare a quello che Onfray attribuisce a tutti gli avversari del capitalismo.
Tra questi, Karl Marx costituisce un bersaglio privilegiato. Apprendiamo che egli era «sprezzante» nei confronti del popolo parigino che era insorto nel marzo 1871 contro il governo di Adolphe Thiers, e «piuttosto (sic) dalla parte dei rappresentanti di Versailles» per odio degli anarchici proudhoniani e per delle «ragioni di strategia e tattica opportuniste». L’autore si basa su una lettera indirizzata all’Associazione internazionale dei lavoratori in cui «Marx raccomandava al popolo di Parigi soprattutto di non insorgere e di preparare la rivoluzione (marxista destinata a compiersi)». Un documento che costituisce, come qualsiasi storico sa, un falso grossolano. Anche Robespierre e Lenin sono in buona posizione, non soltanto per essere stati dei pensatori della rivoluzione, ma anche, reato supremo, dei protagonisti di primo piano. In questo libro, tuttavia, è Jean-Paul Sartre che ha il primato assoluto della malvagità. Il reato, stavolta, è di lesa maestà, in quanto egli avrebbe cercato di «uccidere Camus», per lo meno simbolicamente, come Marx, Mikhail Bakunin, a forza di «intrighi», «colpi bassi», «disinformazione», «calunnie», «maldicenze», «insinuazioni» e, attraverso di lui, ante litteram, lo stesso Onfray, suo erede presunto e presuntuoso.
Dopo Sigmund Freud («stregone postmoderno», libidinoso e complice del fascismo) e Jean-Paul Marat («l’uomo del risentimento»), strigliati in precedenti lavori, Onfray persegue i suoi regolamenti di conti con ciò che traspare stavolta dietro la figura spregevole di Sartre: oltre all’ideale rivoluzionario votato al supplizio, la filosofia professata all’École normale supérieure. Come lascia intendere il sottotitolo del libro, non è tanto la riflessione teorica che avrebbe fatto di Camus un filosofo, quanto, semplicemente, la vita che ha condotto. A differenza dei letterati chiusi nella caverna di Platone situata in rue d’Ulm (sede dell’École normale supérieure), separati dal mondo concreto, Camus avrebbe filosofato, durante tutta la sua esistenza, attraverso un’«arte del vivere» e dei racconti, delle pièces, dei saggi, delle cronache che egli ne ha tratto. Dove? A Tipaza, per esempio, «luogo d’elezione della felicità camusiana», della «filosofia dionisiaca» e della «gaia scienza nietzscheana», dove Onfray si è recato in pellegrinaggio, sulle orme di Camus, accompagnato dal direttore del “Point” Franz-Olivier Giesbert, stupefatto, e da un fotografo.
Tra le ossessioni di Onfray torna un’incarnazione suprema del male: «Il piccolo stagno parigino, mafioso a volontà», «milieu intellettuale del dopoguerra impregnato di comunismo» che avrebbe «deciso di rendere impossibile la vita a Camus». Si direbbe che costui non abbia mai fatto parte del Gran Mondo dei letterati! O che lì il Premio Nobel della letteratura sia stato sempre mal visto. Eppure vi ha trascorso gran parte della sua vita di scrittore, come un autore riconosciuto. E si potrebbe addirittura dire, da questo punto di vista, che egli è morto simbolicamente come ha vissuto: l'auto sportiva Facel-Vega schiantata contro un albero, dove fu trovato il suo corpo nel gennaio del 1960, era guidata dal suo amico Michel Gallimard, nipote del celebre editore. Camus non è mai stato un esiliato in patria, non più almeno di quanto lo sia Onfray, che frequenta la crème intellettual-mediatica della capitale.
È chiaro ormai: per questo anarchico di successo che non teme di andare a «dialogare» al ministero dell’Interno sull’esistenza di Dio e la differenza tra il bene e il male con un ministro della polizia, né di indirizzare a quest’ultimo, divenuto presidente, una «lettera aperta» per sostenere l’idea di un trasferimento delle ceneri di Camus al Panthéon poiché «agendo in questo modo» egli sarebbe «all’origine di una autentica rivoluzione che ci dispenserebbe dall’augurarcene un’altra», né in fin dei conti di farsi cantore di una «gestione libertaria del capitalismo», dato che trattasi di un sistema che «è vecchio quanto il mondo e che durerà quanto lui», il termine «libertario», così distorto, non è nient’altro, ormai, che un gingillo linguistico. È dell’ordine tout court che Onfray è divenuto seguace. «Niente capovolgimenti, nessuna rivoluzione provvidenziale», dichiara a mo’ di conclusione, ridicolizzando la volontà di chi persiste a volerla far finita con il capitalismo; appello che riecheggia quello dall’oltretomba che egli crede di sentire da Camus: «Sì alla vita. No a chi la intralcia». Folle audacia...

Le Monde diplomatique, marzo 2012

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