17.4.12

Simona Mafai ricorda la strage di Portella della Ginestra (Palermo, 2005)

La lapide che ricorda le vittime a Portella della Ginestra
Quello che segue è il testo dell’intervento di Simona Mafai tenuto a Palermo, presso la libreria Broadway (Palermo) il 4 novembre 2005, in occasione della presentazione di Portella della Ginestra/Indice dei nomi proibiti, un testo di poesia drammatica di Beatrice Monroy, poi messo in scena dalla Compagnia dell’Elica, diretta da Gigi Borruso. L’ho tratto dal sito della Monroy, animatrice della vita culturale palermitana, e contribuisco, nel mio piccolo, a farlo circolare anche come omaggio a una compagna di sicuro valore che ho conosciuto e stimato, come mia senatrice nella circoscrizione di Gela e Piazza Armerina.
Simona ha avuto la ventura di trovarsi vicina, senza lasciare soffocare la sua forte personalità, a grandi figure della storia culturale e politica del nostro paese, dal padre Mario alla madre Anna Raphael, dalla sorella Miriam, giornalista di valore, a Giancarlo Pajetta che di costei fu compagno. Fu sposata a Pancrazio De Pasquale, forse la più luminosa intelligenza del Pci siciliano, che qui Simona ricorda nel suo ruolo di dirigente politico e di parlamentare. (S.L.L.)
Simona Mafai
La storia d’Italia non è certo avara di stragi. Ricordando Portella del 1947 (11 morti, 27 feriti) la mente corre alla strage di piazza Fontana ed anche a quella della stazione di Bologna.
“L’Italia – ha scritto uno storico – è tutta una serie di ferite e cicatrici”.
Cicatrici diverse, ma inferte con un medesimo obbiettivo, pur nella diversità dei tempi e delle fasi politiche: impedire l’accesso delle classi lavoratrici alla direzione dello stato, rendendo impraticabile – con l’arma del terrore – l’intesa tra le forze riformatrici avanzate ed i ceti intermedi (moderati, ma disponibili però a percorrere le vie del rinnovamento). Con una caratteristica specificatamente siciliana: il ruolo svolto in altre parti d’Italia dai cosiddetti “servizi deviati” e dalle bande di estrema destra – è svolto in Sicilia dalla mafia (e, nell’immediato dopoguerra, dalle peggiori frange separatiste).
E’ un po’ fastidioso parlare e riparlare di voti e di assemblee legislative; ma bisogna pur avere presente che dieci giorni prima della strage di Portella c’erano state le elezioni regionali, clamorosamente vinte dal Blocco del Popolo, con 600.000 voti. E che venti giorni dopo la DC si alleò con i partiti dell’estrema destra (con cui prima aveva contrastato), escludendo dalla direzione del Governo e dell’Assemblea proprio lo schieramento popolare vittorioso.
Il primo Governo della Sicilia autonomista si innestò dunque sull’accoppiata tra violenza stragista e spregiudicatezza politica, un peccato originario che ha gettato la sua ombra su tutti gli eventi successivi, e che ha compromesso, o quanto meno resa fragile, la fiducia delle masse lavoratrici nella democrazia e nelle sue istituzioni. Cito un’interessante e originale osservazione dello storico Salvatore Lupo, relativa proprio a quegli anni. “I social-comunisti trassero una certa diffidenza per i nuovi meccanismi democratici dal fatto che la loro vittoria elettorale in Sicilia non li aveva per nulla avvicinati al governo della regione”.
Ma Portella non può essere letta solo in chiave siciliana. Essa, come disse nel trentennale della strage (1977) – consentitemi la citazione – Pancrazio De Pasquale, allora presidente comunista dell’ARS, è stata “la prima intimidazione …non solo contro i lavoratori, ma contro il nuovo stato repubblicano …Nel dopoguerra il blocco agrario e parassitario dominante in Sicilia tentò, una dopo l’altra, due carte per svincolarsi dalla imminente trasformazione democratica dello stato: prima il separatismo e dopo la monarchia …Ambedue queste prospettive fallirono il loro obiettivo, ed i gruppi reazionari siciliani che fino allora si erano raggruppati in formazioni estranee ed antagoniste alla politica dei governi di unità antifascista, entrarono in crisi” e decisero di inserirsi direttamente nell’architrave dei nuovi governi repubblicani per destrutturarli, fagocitando la DC, che da Portella in poi si caratterizzerà come partito dei ceti possidenti, e si farà permeabile alle infiltrazioni mafiose. “Dal profondo della Sicilia - proseguiva De Pasquale - …fa la sua prima apparizione, viene alla ribalta, quell’intreccio tra criminalità e reazione, tra eversione e provocazione, che dopo aver covato sotto le coltri per tanti anni riesploderà nelle grandi metropoli industriali …dell’Italia di oggi”.
E’ un collegamento – tra “stragi siciliane” e “stragi nazionali” - non complottardo o cospirativo, ma nettamente politico; e le recenti ricerche di Casarrubea supportano questa tesi con ulteriore materiale, comunque da verificare. Non è certo un caso se, nell’ambito del ciclo di riflessione sulla storia della Sicilia promosso dal Gramsci si è ritornati a parlare di Portella: sia nella relazione introduttiva di Francesco Renda, e proprio sul rapporto (alternato) tra stragismo siciliano e nazionale, sia nella relazione di Piero Violante sull’autonomia, quando, parlando dell’assassinio Mattarella, egli afferma: “Il delitto Mattarella rimane un mistero, uno dei tanti e irrisolti misteri italiani – badate non siciliani –  a partire da Portella della Ginestra”.
Ma non voglio soffermarmi ancora sul dibattito storico e politico attorno a Portella. Il poema di Beatrice Monroy, ci porta ad un’altra, e direi più elevata, dimensione. La sua rievocazione di quel tragico Primo maggio (e della giornata che lo precedette, e dei mesi che lo seguirono) trasfigura e supera ogni polemica, sovrastandola con la esposizione nuda del dolore, la purezza del linguaggio, la lineare scansione dei tempi del dramma. Come tutto ciò verrà riprodotto in palcoscenico domani, è la sorpresa che ci hanno riservato Gigi Borruso e la Compagnia dell’Elica.
Beatrice Monroy affonda con delicatezza le mani in quel durissimo dolore, e lo fa riemergere come una nuvola senza confini, in cui può riconoscersi qualsiasi luogo del mondo, dove migliaia di vittime inconsapevoli, piccole e indenni da colpe, vengono quotidianamente sacrificate sull’altare di un dio senza volto. Forse, “il potere”, dio crudele e indifferente, osceno ed uguale, sia nelle metropoli sia nei margini più sperduti della terra.
Riflettere su queste cicatrici, non per ritorsioni o vendette, ma per un autentico sforzo di verità, è un’opera altamente civile. Poeti, studiosi, politici, testimoni dei fatti, vogliamo impedire l’oblio e superare le debolezze delle nostre comunità sempre in bilico su memorie contrapposte. Ci assumiamo l’orgoglioso compito di conservare, legittimare e promuovere una memoria storica riconosciuta, su cui costruire la nostra identità collettiva, base e sostanza vitale di uno stato e di una regione rinnovati e sani. Non per restare affondati nel passato, al contrario: ma per trovare, dalle nostre radici, la forza di aprire e percorrere strade nuove e magari nuovissime. Cito Remo Bodei: “Per sapere chi siamo dobbiamo ricordare, congiungendoci al passato; ma, insieme, anche dimenticare per aprirci al futuro”. 

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