14.4.12

Surrealismo, design e moda (di Robert Hughes)

In margine a un mostra londinese sul surrealismo “La Stampa” pubblicò il 24 marzo 2007 un articolo di Robert Hughes, al tempo critico d’arte di “Time”, che argomentava una sua tesi ardita. Il surrealismo - che esplicitamente e fortemente si opponeva opporsi ai processi di ripetibilità, razionalizzazione, omologazione, caratteristici della società industriale avanzata – in ultima analisi era più vicino all’industria di quanto non lo fossero altre avanguardie dichiaratamente industrialiste, poichè influenzò nei procedimenti e nelle tecniche il design e la moda. 
La tesi viene svolta senza generalizzazioni e forzature e tuttavia per me risulta molto discutibile, cioè degna di essere conosciuta e discussa. Una buona ragione per “postare” gran parte del citato articolo. (S.L.L.)

La grande mostra del Victoria and Albert Museum di Londra che si terrà fra aprile e luglio, intitolata Cose surreali: il surrealismo e il design, è senza dubbio la prima del suo genere. Tutti sappiamo qualcosa del surrealismo, il movimento artistico più popolare del '900. Il termine si è così diffuso che oggi «surreale» è comunemente usato per designare quel che c'è di strano, sovrannaturale o inaspettato.
Ciò si deve a Andrè Breton, il Papa di questo movimento nato un centinaio di anni fa, che prese a prestito la parola dal suo amico poeta Guillamme Apollinaire e dal titolo di una sua opera teatrale Le mammelle di Tiresia. Dramma surrealista. Ma questo fu solo l'inizio, il termine è uscito dalla scatola da lunghissimo tempo e si è conquistato qualcosa di analogo all'immortalità. Quadri surrealisti e film surrealisti. Ma il «design» surrealista? Sembra quasi una contraddizione in termini. La parola design si identifica fortemente con le procedure industriali, con la modularità, con la razionalizzazione dei processi in chiara ripetibilità. Il design implica che una cosa non venga fatta una volta sola per tutte, ma ancora e ancora, senza perdere di qualità e di intensità. Che un oggetto sia «di design» comporta, almeno in apparenza, che ogni suo minimo aspetto, partendo dal primo scarabocchio della matita mossa dalla concezione originaria dell'ideatore fino all'uso che si immagina ne debba fare il fruitore finale, sia perfettamente definito e portato a un livello di piena consapevolezza. Niente di più lontano, si direbbe, dallo spirito e dal modus operandi del surrealismo, perché gli oggetti «surrealisti» in linea di principio non hanno mai dimorato del reame dell'esperienza, pur venendo poi a concretizzarsi (misteriosamente) nel mondo reale, e di preferenza in un mondo vecchio (benché non antico). Questo implica che hanno perso il loro contesto e persino, se possibile, la memoria di quel contesto, in modo da apparire all'occhio stregato dell'osservatore come pieni dei fantasmi dei precedenti significati, eppure (inesplicabilmente) nuovi: apparizioni magiche. Questo comporta, ancora, che la maggior parte degli oggetti surrealisti derivi la sua poesia dalla totale inutilizzabilità. E come si fa a fare «design» di qualcosa di completamente inutile? Da qui la completa opposizione fra l'attuale mostra e quella intitolata al «Modernismo» dal Victoria and Albert Museum nel 2006.
Il design modernista di mobilia, spazi e oggetti viene realizzato con un occhio alla possibilità di produzione in serie. Il design surrealista no: in pratica ogni cosa definibile surrealista è quella e basta. Non sono certo che il termine design sia davvero appropriato per certi oggetti esposti nella mostra, come lo Spettro della gardenia (1933): la riproduzione in gesso del ritratto della favorita reale Madame Dubarry realizzato nel Settecento dallo scultore francese Houdon, che Jean ha virato al colore nero. Al posto degli occhi l'autore ha collocato due piccole cerniere lampo, che aprendosi rivelano due minuscole foto (una stella, una faccia) laddove dovrebbero stare le pupille. Questa maschera feticistica ha avuto eco lontane, per esempio nelle maschere S&M prodotte dall'artista americana Nancy Grossman che ebbero il loro impatto sulla scena di New York negli anni Settanta. Ma sul design come generalmente inteso, cose come quella realizzata da Marcel Jean non hanno avuto effetto. Quando si deve decidere della surrealtà di una cosa o di un'immagine, la domanda decisiva è: si distacca dal mondo delle cose comuni che la circondano, ne sta fuori? La sua singolarità e il suo essere a parte la distinguono dal contesto fino al punto di promettere l'accesso a una realtà differente? Non è questione di novità (che una cosa appaia nuova è di scarsa importanza per il surrealismo) ma piuttosto di intensità e di stranezza. C'è chi ha fantasticato sulla creazione di un canone di cose che possano essere definite surrealiste. Il fotografo Man Ray ha giocato con l'idea che «qualche genere di bollino» possa essere inventato e appiccicato per distinguere «la poesia, il libro, il dipinto, la scultura o l'edificio» surrealisti dagli altri che non possono essere definiti tali. Ovviamente, questo è impossibile; ogni tentativo di stabilire un simile copyright è destinato a fallire. Per dirla tutta, l'unico oggetto surrealista che avrebbe potuto, in ipotesi, trovare per se stesso una vera collocazione di mercato, sia pure di nicchia, sarebbe stato il divano creato dal collezionista inglese Edward James in tandem con Salvador Dali: il giustamente famoso sofà rosa con la forma delle labbra di Mae West. Ci si può immaginare un certo numero di acquirenti per questa divertente e voluttuosa parodia già nel 1938 quando fu concepita l'idea, e sembra probabile che ce ne sarebbero ancora di più oggi. Uno dei meriti della mostra di Londra è che è la prima a prendere in seria considerazione il rapporto fra il surrealismo e le arti del lusso - la moda, il décor degli interni, la gioielleria eccetera. Spostando lievemente l'angolo visuale, come fa questa esposizione, ci si accorge che tali attività pur non essendo intrinsecamente rilevanti per il surrealismo, come sono invece la pittura o la scultura, hanno recato un contributo addizionale allo spirito del movimento, attraverso persone che non sempre sono citate fra i suoi creatori.
Fra l'altro, non sono stati solo i designer a creare i vari «look» surrealisti, perché un ruolo importante é stato svolto dai più ricettivi e creativi dei loro clienti, come Charles de Bestegui, che non sempre hanno seguito alla lettera i suggerimenti degli artisti. Del resto, come avrebbero potuto? Pensate a quando Salvador Dali saltò su con una proposta che tuttora suona, francamente, repellente come quella della poltrona animata: «Avrà vita. Avrà respiro. Sarà un meccanismo che seguirà il ritmo del respiro umano». Non risulta che una tale mostruosità sia mai stata costruita, e c'è da chiedersi come sarebbe stato possibile rilassarsi su questa specie di poltrona a cucù.
La moda è sexy. Così è il surrealismo. A nessuno verrebbe in mente di definire sexy il cubismo, o il costruttivismo, o qualunque altro movimento del XX secolo (con la possibile eccezione dell'espressionismo tedesco che ha avuto qualche lampo sexy, benché non molti). Invece una delle credenze di base del surrealismo, come stabilito dal suo creatore Andrè Breton, è stata l'«amour fou»: cioè l'amore ossessivo, il genere di amore che travolge i sensi e trascina senza controllo nel vortice degli appetiti e dei sentimenti.

“La Stampa”, 24 marzo 2007 
  

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