Sarà pure un riflesso qualunquista e conservatore, ma uno sconforto senza pari prende me e tanta gente quando ci accade di parlare con i giovani laureati del "3+2" e dei crediti formativi. L'impressione diffusa è che il livello culturale, generale e specifico, sia molto basso, e che il combinato disposto di contenuti formativi e di organizzazioni didattiche che frammentano il sapere in favore di una presunta specializzazione e spendibilità sul mercato delle lauree (brevi o lunghe che siano) abbia prodotto una situazione fallimentare. Nè - credo - codesti giovani laureati, cui è stato negato il diritto a un'alta formazione, hanno avuto il facile accesso a lavori connessi coi loro studi di cui si favoleggiava.
Ho il sospetto che in tutto ciò c'entri (e non poco) anche la distruzione del liceo, ma che ci siano ragioni connesse alla serie di riforme che dalla metà degli anni 90 hanno teso ad uniformare le Università al modello americano, e ho qualche indicazione - anche in famiglia - che il processo non riguarda solo l'Italia, ma l'Europa intera.
M'è parso di trovare conferma a questo complesso di dubbi e di sensazioni leggendo sulle pagine del "manifesto" i testi di una polemica interna al mondo universitario, ma di grande interesse per tutti i cittadini perchè collegata al modello di società che si prefigura. Il 24 gennaio 2012 due docenti universitari di storia, Piero Bevilacqua e Angelo D'Orsi hanno pubblicato sul "quotidiano comunista" un appello sull'Università a Monti e Profumo sul quale cercavano e ottenevano numerose firme, teso a rompere il modello affermatosi e a ripristinare la funzione "scientifica" e non mercantile dell'Iniversità. A fine febbraio il testo di un gruppo di docenti di varie discipline replicava, accusando D'Orsi e Bevilacqua di nostalgia e conservatorismo e difendendo l'impianto delle riforme dell'ultimo ventennio. Il 24 marzo i due storici reintervenivano con asprezza polemica a contestare la replica. "Posto" qui tutti e tre i testi, sperando di fare cosa utile anche a lettori che, come me, hanno rapporti saltuari e non approfonditi con le problematiche universitarie. (S.L.L.)
Ho il sospetto che in tutto ciò c'entri (e non poco) anche la distruzione del liceo, ma che ci siano ragioni connesse alla serie di riforme che dalla metà degli anni 90 hanno teso ad uniformare le Università al modello americano, e ho qualche indicazione - anche in famiglia - che il processo non riguarda solo l'Italia, ma l'Europa intera.
M'è parso di trovare conferma a questo complesso di dubbi e di sensazioni leggendo sulle pagine del "manifesto" i testi di una polemica interna al mondo universitario, ma di grande interesse per tutti i cittadini perchè collegata al modello di società che si prefigura. Il 24 gennaio 2012 due docenti universitari di storia, Piero Bevilacqua e Angelo D'Orsi hanno pubblicato sul "quotidiano comunista" un appello sull'Università a Monti e Profumo sul quale cercavano e ottenevano numerose firme, teso a rompere il modello affermatosi e a ripristinare la funzione "scientifica" e non mercantile dell'Iniversità. A fine febbraio il testo di un gruppo di docenti di varie discipline replicava, accusando D'Orsi e Bevilacqua di nostalgia e conservatorismo e difendendo l'impianto delle riforme dell'ultimo ventennio. Il 24 marzo i due storici reintervenivano con asprezza polemica a contestare la replica. "Posto" qui tutti e tre i testi, sperando di fare cosa utile anche a lettori che, come me, hanno rapporti saltuari e non approfonditi con le problematiche universitarie. (S.L.L.)
Torino 2010, Protesta studentesca davanti alla Sede Universitaria di Palazzo Campana |
L'appello
Cari Profumo e Monti, ecco “L’Università che vogliamo”
L’Università italiana sopravvive, difficoltosamente, in una condizione di disagio e di crescente emarginazione che ha pochi termini di confronto nella storia recente. Essa ha visto fortemente ridotte le risorse economiche per il suo funzionamento, molto prima che si manifestasse la crisi mondiale e malgrado le modeste dotazioni di partenza rispetto agli altri Paesi industrializzati. Tutti i saperi umanistici e buona parte delle scienze sociali sono da tempo sfavoriti, a beneficio di discipline che si immaginano più direttamente utili alla crescita economica, o genericamente al “Mercato”. Si tratta di una tendenza in atto da anni che ci accomuna all’Europa e a larga parte del mondo. A tutti gli insegnamenti viene richiesto di fornire un sapere utile, trasformabile in valore di mercato, altrimenti sono ritenuti economicamente non sostenibili.
Perciò oggi si sta scatenando negli atenei la definizione dei “criteri di valutazione”, al fine di misurare la “produttività” scientifica degli studiosi, come si misura una qualsivoglia quantità calcolabile. Anche per questo, le Università europee sono sotto l’assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, che soffocano i docenti in pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni quasi sempre di breve durata. Sempre minore è il tempo per gli studi e la ricerca, mentre la vita quotidiana di chi vive nelle Facoltà – docenti, studenti, personale amministrativo – è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli, spesso di difficile comprensione, quasi sempre pleonastici.
Noi crediamo che questo modello di Università europea, avviato con il cosiddetto “processo di Bologna” abbia rivelato il suo totale fallimento. Il numero dei laureati non è aumentato, le percentuali degli abbandoni nei primi anni sono rimaste pressoché identiche, diminuiscono le immatricolazioni, si fa sempre più ristretta l’autonomia universitaria, i saperi impartiti sono sempre più frammentati e tra di loro divisi, tecnicizzati, mai riconnessi a un progetto culturale, a un modello di società. Tutto ciò riguarda non solo il nesso saperi/mercato, ma anche il modello sociale, come è evidente alla luce dell’innalzamento delle tasse d’iscrizione, delle politiche di numero chiuso e della scelta di segmentare, alla luce di politiche classiste, il sistema universitario nazionale facendosi schermo del mito dell’eccellenza.
Al fondo di questo fallimento c’è una esperienza storica recente che illumina sinistramente l’intero quadro europeo. È quello che possiamo chiamare il grandioso scacco americano. Gli USA, elaboratori del modello che l’UE ha voluto tardivamente imitare, sono il Paese che in assoluto ha investito di più nella formazione universitaria e nella ricerca, finalizzate ad accrescere la potenza economica. Ma a dispetto dell’immenso fiume di risorse e la finalizzazione spasmodica delle scienze alla produzione di brevetti e scoperte strumentali, i risultati sono stati irrisori. La grande ondata di nuovi posti di lavoro qualificati non si è verificata. Anzi, gli investimenti nel sapere hanno accompagnato un fenomeno dirompente: la distruzione della middle class. Per concludere con una apoteosi: gli USA, che hanno visto trionfare negli ultimi decenni nuove tecnoscienze come l’informatica e la genetica, hanno trascinato il mondo nella più grave crisi economico-finanziaria degli ultimi 80 anni.
Questa lezione storica ci dice che il sapere tecnoscientifico, da sé, interamente finalizzato alla crescita economica e senza un progetto equo e solidale di società, privo della luce della cultura critica, è destinato a fallire. Inseguire gli USA su questa strada è aberrante. La crisi in cui versa il mondo rivela l’erroneità irrimediabile di una strategia da cui bisogna uscire al più presto.
Per tale ragione, i firmatari del presente Manifesto indicano i punti programmatici cui dovrebbe ispirarsi un progetto di università che avvii la fuoriuscita dal modello liberistico di un’Europa ormai sull’orlo del collasso.
Occorre al più presto abolire il fallimentare sistema del 3+2 dall’organizzazione degli studi e ripristinare i precedenti Corsi di Laurea, prevedendo lauree brevi per le Facoltà che vogliono organizzarli.
Occorre abolire i crediti (i famigerati CFU) come criteri di valutazione degli esami. Il fatto che essi siano utilizzati anche nel resto d’Europa è una buona ragione per incominciare a scardinare il misero economicismo che è stato iniettato anche negli atenei del Vecchio Continente.
Occorre ripensare i criteri di valutazione che riguardano i saperi umanistici. Noi crediamo giusto che l’Università resti pubblica, sostenuta da risorse pubbliche. Una condizione che implica anche un controllo – certamente mediato, ma serio, non propagandistico – del buon uso delle risorse provenienti dal contributo fiscale di tutti i cittadini. Ma tale controllo deve riguardare soprattutto i Consigli di Amministrazione degli Atenei, che devono diventare assolutamente trasparenti, con adeguata pubblicità, nelle loro scelte e nei loro bilanci.
L’organo di autogoverno degli Atenei sul piano didattico e della ricerca non può essere comunque il CdA, ma il Senato Accademico, democraticamente eletto, in modo da rappresentare equamente tutte le discipline e tutte le figure di coloro che nell’Università lavorano e studiano.
Occorre ripristinare la figura del ricercatore a tempo indeterminato abolita dalla legge Gelmini. Occorre immediatamente dar vita a un meccanismo di rapido reclutamento di nuovi ricercatori, con liste nazionali di idoneità, che tengano conto della produzione scientifica, dell’esperienza maturata nell’attività didattica, nell’attività gestionale, e nell’organizzazione culturale: le Facoltà dovranno poter scegliere all’interno di quelle liste e chiamare liberamente gli idonei.
Ma è necessario al più presto bandire concorsi per la docenza in tutte le Facoltà. I docenti (compresi i ricercatori) italiani sono i più vecchi d’Europa e i numerosi pensionamenti hanno sguarnito gravemente tante Facoltà. Oggi si piangono ipocrite lacrime sulla disoccupazione della gioventù. Ma quale migliore occasione per il governo in carica di fornire risorse ai ricercatori senza lavoro, ai tanti giovani che passano dai dottorati ai master senza mai trovare un approdo, una istituzione in cui continuare studi e ricerche?
È infine necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi, il loro studio e la loro trasmissione nelle Università. La complessità sempre più interrelata del mondo vivente e della società ci impone un diverso modo di studiare, ci chiede un dialogo tra le discipline, una organizzazione degli studi che non esalti la solitaria eccellenza individuale, ma la cooperazione fra campi diversi della conoscenza, così come la società ci chiede la cura collettiva dei beni comuni.
Piero Bevilacqua
(Storia contemporanea, Sapienza, Roma)
Angelo d’Orsi
(Storia del pensiero politico, Università di Torino)
Per aderire inviare una e-mail a:universitachevogliamo@gmail.com specificando disciplina e sede lavorativa
“il manifesto” 24.01.2012
Torino, Palazzo dell'Università |
L'Università che vogliamo.
Cambiare, senza alcuna nostalgia per il passato
L'appello di Piero Bevilacqua e Angelo D'Orsi (L'università che vogliamo, il manifesto 24/1/12) trasuda nostalgia per una supposta "Età dell'oro" dell'università italiana. Per rifiutare un modello curricolare che ha superato la prova di tre maggioranze diverse e cinque ministri dell'università di opposte tendenze e che è stato adottato da 46 paesi europei, esso propone una analisi ricca di imprecisioni e di affermazioni non confermate dalla realtà.
Facciamo alcuni esempi. 1. Non risulta che nelle università europee «la vita quotidiana ... è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli...». Questo è in parte vero per le università italiane, a causa di pesanti e continui interventi prescrittivi; ma dedicare tempo alla progettazione dei curricoli didattici e alla stesura di programmi di ricerca (come avviene in tutto il mondo) appare gravoso soprattutto a chi è abituato a fare le proprie attività professionali tradizionali, spesso esterne all'università alla quale accade di "affacciarsi" di tanto in tanto (vedi L'università dei tre tradimenti di Raffaele Simone).
2. «A tutti gli insegnamenti viene richiesto di fornire un sapere utile»: ciò non vuol dire che tale sapere debba essere «trasformabile in un valore di mercato» e, laddove ciò avvenga, non appare comunque un'infamia dal momento che gli studenti devono poi entrare nel mercato del lavoro anche con delle competenze utilizzabili.
3. Il modello di università europea non si è «avviato con il cosiddetto processo di Bologna». Le trasformazioni dei sistemi universitari europei precedono il processo, cui in Italia si è dato inizio proprio per recuperare un ritardo di decenni. Quanto ai risultati nel nostro Paese, chi porta numeri anziché limitarsi a parole (rilevazioni Alma Laurea e Stella nel recentissimo Rapporto della Fondazione Agnelli) rileva che il 40 per cento degli studenti si laurea nei tempi previsti (contro il precedente 10 per cento scarso), il 25,8 per cento dei laureati viene dalla classe operaia, il 26,9 per cento da genitori privi di titolo di studio, il 76,5 per cento da famiglie nelle quali non esistevano laureati. Non è abbastanza, ma non è poco.
4. L'autonomia universitaria non si è ristretta con il «processo di Bologna» ma con le misure dello scorso governo (legge 240/10 e decreti del ministro Gelmini).
5. Infine, il «grandioso scacco americano» (che comunque andrebbe discusso) non ha rappresentato il modello ispiratore del «processo di Bologna». Al contrario, proprio i sostenitori di esso ritengono che il modello americano non sia esportabile e che vada elaborato un modello europeo, appunto attraverso la creazione dell'Area europea dell'istruzione superiore e della ricerca; si sono già ottenuti risultati rilevanti nello svecchiare e sprovincializzare le precedenti pratiche nazionali e nel creare un corpo di studenti e una comunità di ricercatori consci della comune appartenenza europea.
Sulla base degli assunti qui sopra criticati, gli autori ritengono che per uscire dalla crisi l'università italiana debba «abolire il fallimentare sistema del 3+2 e ripristinare i precedenti corsi di laurea», abolendo altresì «i crediti (i famigerati Cfu) come criteri di valutazione degli esami». È un ulteriore errore: i Cfu non c'entrano con la valutazione, ma attribuiscono un peso agli insegnamenti. Un tempo esso corrispondeva a materie "fondamentali" o "complementari"; attraverso i Cfu potrebbe essere articolato più flessibilmente, anche se in molti casi per non scontrarsi tra colleghi (e ignorando gli interessi degli studenti) si è preferito attribuire a tutti i corsi il medesimo numero di crediti.
Quanto alla «università che si vorrebbe», quale organo di guida degli atenei viene riproposto il Senato accademico che ha governato finora, non sembra con risultati dovunque brillanti. Si può davvero credere che in un Senato paritario i vari ras accademici e le aree disciplinari più forti non impongano la propria volontà?
Secondo gli stessi estensori dell'appello, peraltro, occorrono cambiamenti: è «necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi» (poiché) «la complessità sempre più interrelata del mondo vivente e della società ci impone un diverso modo di studiare, chiede un dialogo tra le discipline... la cooperazione fra campi diversi di conoscenza».
Nei documenti costitutivi del «processo di Bologna» (attuati in Italia solo in parte, per responsabilità di vari governi che si sono succeduti) si trovano, tra le altre, proprio queste finalità che l'università in precedenza non considerava. Il percepire la necessità delle trasformazioni, combinandola però con la richiesta di ritorno al modello di università del bel tempo andato, sembra la contraddizione più vistosa dell'appello di Bevilacqua e d'Orsi.
Per non limitarci alla critica, vogliamo qui dire per che cosa cerchiamo di operare noi. Vogliamo una università che sia uno strumento per ridurre - con una distribuzione socialmente equa degli oneri universitari - la immobilità sociale che caratterizza la società italiana e che permetta alle comunità scientifiche una autonoma rielaborazione dei saperi e una sperimentazione di nuove aggregazioni disciplinari. Che si affronti senza pregiudizi il problema del rapporto tra elaborazione disciplinare (science driven) e mondo del lavoro (society driven).
A differenza di quanto avveniva nel modello sovietico di derivazione francese con la separazione tra le accademie e l'università, in Italia il modello universitario è misto e le due funzioni devono convivere a pari dignità; sconcerta il disprezzo che alcuni intellettuali hanno per la funzione occupazionale, posto che gli studenti, che pagano, questo legittimamente esigono. Che si affronti, anche qui rifuggendo dagli slogan, il problema della qualità (che va premiata) e della differenziazione tra atenei, e più ancora tra comunità disciplinari e di ricerca a diverso livello.
Vogliamo infine che si affronti in modo serio il problema della valutazione sia del "merito individuale" (reclutamento dei nuovi docenti e carriera dei vecchi), liberandolo dai clientelismi, sia del "merito collegiale", cioè della capacità, da parte dei Dipartimenti e dei Corsi di studio, di operare in funzione di obiettivi unitariamente definiti e perseguiti. Questi sono i temi strategici con cui si deve misurare chi vuole ragionare sull'università, perché gli errori del passato sono evidenti e non vanno riproposti come virtù.
Facciamo alcuni esempi. 1. Non risulta che nelle università europee «la vita quotidiana ... è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli...». Questo è in parte vero per le università italiane, a causa di pesanti e continui interventi prescrittivi; ma dedicare tempo alla progettazione dei curricoli didattici e alla stesura di programmi di ricerca (come avviene in tutto il mondo) appare gravoso soprattutto a chi è abituato a fare le proprie attività professionali tradizionali, spesso esterne all'università alla quale accade di "affacciarsi" di tanto in tanto (vedi L'università dei tre tradimenti di Raffaele Simone).
2. «A tutti gli insegnamenti viene richiesto di fornire un sapere utile»: ciò non vuol dire che tale sapere debba essere «trasformabile in un valore di mercato» e, laddove ciò avvenga, non appare comunque un'infamia dal momento che gli studenti devono poi entrare nel mercato del lavoro anche con delle competenze utilizzabili.
3. Il modello di università europea non si è «avviato con il cosiddetto processo di Bologna». Le trasformazioni dei sistemi universitari europei precedono il processo, cui in Italia si è dato inizio proprio per recuperare un ritardo di decenni. Quanto ai risultati nel nostro Paese, chi porta numeri anziché limitarsi a parole (rilevazioni Alma Laurea e Stella nel recentissimo Rapporto della Fondazione Agnelli) rileva che il 40 per cento degli studenti si laurea nei tempi previsti (contro il precedente 10 per cento scarso), il 25,8 per cento dei laureati viene dalla classe operaia, il 26,9 per cento da genitori privi di titolo di studio, il 76,5 per cento da famiglie nelle quali non esistevano laureati. Non è abbastanza, ma non è poco.
4. L'autonomia universitaria non si è ristretta con il «processo di Bologna» ma con le misure dello scorso governo (legge 240/10 e decreti del ministro Gelmini).
5. Infine, il «grandioso scacco americano» (che comunque andrebbe discusso) non ha rappresentato il modello ispiratore del «processo di Bologna». Al contrario, proprio i sostenitori di esso ritengono che il modello americano non sia esportabile e che vada elaborato un modello europeo, appunto attraverso la creazione dell'Area europea dell'istruzione superiore e della ricerca; si sono già ottenuti risultati rilevanti nello svecchiare e sprovincializzare le precedenti pratiche nazionali e nel creare un corpo di studenti e una comunità di ricercatori consci della comune appartenenza europea.
Sulla base degli assunti qui sopra criticati, gli autori ritengono che per uscire dalla crisi l'università italiana debba «abolire il fallimentare sistema del 3+2 e ripristinare i precedenti corsi di laurea», abolendo altresì «i crediti (i famigerati Cfu) come criteri di valutazione degli esami». È un ulteriore errore: i Cfu non c'entrano con la valutazione, ma attribuiscono un peso agli insegnamenti. Un tempo esso corrispondeva a materie "fondamentali" o "complementari"; attraverso i Cfu potrebbe essere articolato più flessibilmente, anche se in molti casi per non scontrarsi tra colleghi (e ignorando gli interessi degli studenti) si è preferito attribuire a tutti i corsi il medesimo numero di crediti.
Quanto alla «università che si vorrebbe», quale organo di guida degli atenei viene riproposto il Senato accademico che ha governato finora, non sembra con risultati dovunque brillanti. Si può davvero credere che in un Senato paritario i vari ras accademici e le aree disciplinari più forti non impongano la propria volontà?
Secondo gli stessi estensori dell'appello, peraltro, occorrono cambiamenti: è «necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi» (poiché) «la complessità sempre più interrelata del mondo vivente e della società ci impone un diverso modo di studiare, chiede un dialogo tra le discipline... la cooperazione fra campi diversi di conoscenza».
Nei documenti costitutivi del «processo di Bologna» (attuati in Italia solo in parte, per responsabilità di vari governi che si sono succeduti) si trovano, tra le altre, proprio queste finalità che l'università in precedenza non considerava. Il percepire la necessità delle trasformazioni, combinandola però con la richiesta di ritorno al modello di università del bel tempo andato, sembra la contraddizione più vistosa dell'appello di Bevilacqua e d'Orsi.
Per non limitarci alla critica, vogliamo qui dire per che cosa cerchiamo di operare noi. Vogliamo una università che sia uno strumento per ridurre - con una distribuzione socialmente equa degli oneri universitari - la immobilità sociale che caratterizza la società italiana e che permetta alle comunità scientifiche una autonoma rielaborazione dei saperi e una sperimentazione di nuove aggregazioni disciplinari. Che si affronti senza pregiudizi il problema del rapporto tra elaborazione disciplinare (science driven) e mondo del lavoro (society driven).
A differenza di quanto avveniva nel modello sovietico di derivazione francese con la separazione tra le accademie e l'università, in Italia il modello universitario è misto e le due funzioni devono convivere a pari dignità; sconcerta il disprezzo che alcuni intellettuali hanno per la funzione occupazionale, posto che gli studenti, che pagano, questo legittimamente esigono. Che si affronti, anche qui rifuggendo dagli slogan, il problema della qualità (che va premiata) e della differenziazione tra atenei, e più ancora tra comunità disciplinari e di ricerca a diverso livello.
Vogliamo infine che si affronti in modo serio il problema della valutazione sia del "merito individuale" (reclutamento dei nuovi docenti e carriera dei vecchi), liberandolo dai clientelismi, sia del "merito collegiale", cioè della capacità, da parte dei Dipartimenti e dei Corsi di studio, di operare in funzione di obiettivi unitariamente definiti e perseguiti. Questi sono i temi strategici con cui si deve misurare chi vuole ragionare sull'università, perché gli errori del passato sono evidenti e non vanno riproposti come virtù.
Gabriele Anzellotti, Luciano Benadusi, Stefano Boffo, Giliberto Capano, Alessandro Cavalli, Fulvio Esposito, Giunio Luzzatto, Guido Martinotti, Andrea Messeri, Luciano Modica, Roberto Moscati, Dino Rizzi, Michele Rostan, Massimiliano Vaira
"il manifesto" 29.02. 2012
Torino, Palazzo dell'Università |
Università, i successi di cui non ci siamo accorti
Un gruppo di docenti e studiosi, sul manifesto del 29 febbraio, rimprovera a noi - autori di un appello su L'Università che vogliamo, apparso sempre su questo giornale il 24 gennaio - di avere nostalgia della vecchia Università e non poche inesattezze. Secondo i firmatari non è vero che in Europa gli atenei sarebbero sottoposti a compiti organizzativi mutevoli e sempre più serrati. Questo sarebbe solo il caso dell'Italia. Gli autori possono cambiare idea dando un occhiata a ciò che accade, ad esempio, nel Regno Unito (M. Bailey e D.Freedman, a cura di, The Assault on Universities, Pluto Press, 2011). Ciò che ad essi sfugge, infatti, è il carattere di trasformazione sistemica oggi in atto nelle Università, che devono adattarsi al modello del New Public Management, assumere cioè le vesti di impresa secondo le tendenze da tempo in atto in Usa (si veda D.Bok, Universities in the Marketplace, Princeton University Press, 2005), e questo porta i docenti a dover assolvere sempre più numerose incombenze e compiti organizzativi.
La rivendicazione che noi facciamo di una maggiore libertà da impegni burocratici crescenti nasce ovviamente dalla preoccupazione di vedere ridotto il tempo che i docenti dedicano alla ricerca, e per quel che accadrà alla qualità dell'insegnamento. Non è certo ispirata a rivendicare il disimpegno e l'"imboscamento" nelle professioni di tanti docenti che stanno, come si dice, "nel mercato". Pratica di cui non sentiamo alcuna nostalgia. I sottoscritti, peraltro, non hanno mai avuto professioni private da gestire e posseggono curricula scientifici e popolarità fra gli studenti che li pongono al di sopra di ogni sospetto.
Gli autori dell'articolo esaltano i risultati della riforma cosiddetta del 3+2, perché avrebbe accresciuto il numero dei laureati, diminuito i casi di abbandono, allargato la base sociale di provenienza degli studenti, coinvolgendo anche le famiglie operaie. Utilizzando la stessa fonte dei nostri critici, il rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli (I nuovi laureati, Laterza 2012, d'ora in poi citato come FGA), noi perveniamo a risultati meno ottimistici, pur non tenendo conto dei danni alla qualità dell'insegnamento che quella riforma ha prodotto. È vero che il numero degli iscritti e dei nuovi laureati è aumentato, ma questo, nei primi anni di realizzazione della riforma, è stato un risultato statisticamente "drogato", mentre da alcuni anni si è del tutto arrestato, per incominciare a retrocedere. In quel numero, infatti sono confluiti i cosiddetti studenti "ibridi" come li chiama il rapporto FGA, vale a dire tutti gli studenti fuori corso e molti iscritti al vecchio ordinamento che hanno visto nella laurea triennale una vantaggiosa opportunità per conseguire la laurea. Oggi la «relativa maggiore apertura sociale nei percorsi triennali...si accompagna, però, ad abbandoni ancora elevati» (p.37). Non solo, il fatto è che i nuovi laureati si arrestano sempre più nei confini del triennio, dal momento che le lauree magistrali e a ciclo unico mostrano «una selezione sociale decisamente forte». Dunque, i figli degli operai che accedono all'Università sono sì aumentati, passando dal 19,9% al 25%, ma per conseguire una laurea di serie B. Oltre non riescono ad andare. E tali modesti risultati sono stati conseguiti a prezzo di un abbassamento culturale di insegnamenti ed esami assolutamente senza precedenti. Questi dati, d'altra parte, andrebbero letti entro una più ampia visione sociale dei problemi. Un tempo l'ambizione riformatrice della sinistra italiana era di fare accedere anche i figli degli operai ai saperi dell'alta formazione, mettendoli nella condizione materiale di giungervi. Non si pensava certo il contrario, di rendere cioè popolari i saperi per adeguarli alla modestia culturale dei loro fruitori. Oggi le cose sono profondamente mutate. Poiché nelle nostre Università la durata dei percorsi era lunga, la dispersione e gli abbandoni elevati, dove andava trovata la causa di tanti sprechi e fallimenti? Ovviamente negli ordinamenti universitari, nei curricula troppo lunghi e severi, nella vecchiaia delle nostre istituzioni. Eppure queste istituzioni sono state una parte fondamentale della modernizzazione italiana della seconda metà del Novecento. Come avrebbe potuto un paese come il nostro, uscito da una guerra rovinosa, privo di materie prime fondamentali, diventare uno dei maggiori stati industriali del mondo se le Università non avessero fornito i tecnici, i manager, i quadri dirigenti, gli intellettuali necessari alla bisogna?Li abbiamo importati dall'estero? E come sarebbe stato possibile il successo - universalmente riconosciuto - dei nostri laureati negli altri paesi, che ancora oggi si segnalano in tutte le discipline? Ma allora perché tanti studenti hanno fallito? Qui sta un punto che non ha minimamente sfiorato i riformatori di tutti i governi e che non sfiora oggi neppure i nostri critici. Gli studenti che hanno fallito provenivano per lo più da condizioni sociali e culturali che costituiscono un tratto speciale della situazione italiana. Chi ricorda i dati sull'analfabetismo di massa denunciati ripetutamente da Tullio De Mauro? Questo significa che un numero enorme di giovani non vedono mai un libro o un giornale in casa. E questi sono "punti di partenza" che pesano! Chi si ricorda delle drammatiche divaricazioni delle condizioni scolastiche tra Nord e Sud e anche all'interno delle stesse due aree? A Roma basta qualche chilometro di distanza per avere scuole e percorsi scolastici eccellenti accanto a istituti di bassa qualità, quando non degradati. Perdura, insomma, nella società italiana una netta frattura di classe dei percorsi formativi scolastici, che poi si traduce nei successi e nei fallimenti degli studi universitari.
È a valle che i governi avrebbero dovuto soprattutto intervenire, non trasformando l'Università in un caotico Liceo, dove si fa commercio di crediti. Capisco che questo invocato è un compito impegnativo, che ha a che fare con le strutture di classe e di dominio della società italiana. Obiettivo oggi troppo ambizioso per una sinistra impegnata in cose più importanti. Ma si poteva comunque fare qualcosa anche a monte, senza impegnarsi in conflitti ardimentosi, vale a dire al momento dell'ingresso degli studenti svantaggiati nell' Università. Ad esempio, con un buon sistema di tutoraggio e con il sostegno di borse di studio. Ebbene, proprio il rapporto FGA ci informa impietosamente che in Italia gli studenti beneficiari di una borsa di studio sono il 10% del totale, di fronte a oltre il 30% di paesi come la Francia e la Germania. Non solo: mentre la media di risorse spese in Italia per le borse era di 300 milioni l'anno (oggi ulteriormente decurtata), in Germania e in Francia sono «un miliardo e 400 milioni» (p.38).
Gli autori dell'articolo si dicono sconcertati per «il disprezzo che alcuni intellettuali hanno per la funzione occupazionale» degli studi universitari. C'è in questa considerazione una incomprensione rivelatrice di due diversi orizzonti culturali e teorici, di due diverse letture della società contemporanea. Intanto, nessun disprezzo. Nell'Appello consigliamo l'istituzione delle lauree brevi per gli atenei che le ritengano opportune. Ci sono nuove professioni - ad esempio in ambito biomedico - che hanno bisogno di percorsi specifici, a meta strada tra medicina, fisica, biologia, ecc. Ma il nodo del disaccordo è ben altro: è il rapporto tra mercato del lavoro e gli studi superiori. Noi crediamo che tutto il sistema universitario dell'età contemporanea, così come si è venuto configurando dall'800 in avanti, abbia ubbidito alle richieste del mercato del lavoro capitalistico. Per quale ragione sarebbero nate le Facoltà di Chimica, di Ingegneria, di Botanica, ecc.? Naturalmente, in passato la sfera della produzione privata e quella degli studi godevano di una marcata autonomia, «davano l'impressione di tenersi a reciproca distanza», come dice Zygmunt Bauman. Ma queste vecchie Università, entro società e Stati infinitamente più poveri di quelli attuali, si permettevano il lusso di tenere aperti corsi di epigrafia latina, etruscologia, lingue dell'antico Oriente, ecc. Oggi, la pressione esercitata sull'Università per rispondere alle richieste del mercato del lavoro, rende inconcepibili simili "sprechi". Che lavoro troveranno i giovani che si laureano in simili discipline? Quello che i nostri interlocutori non scorgono è l'enorme pressione culturale che il capitalismo va esercitando, in forme diverse da paese a paese, sulle strutture della formazione. Oggi sta riducendo gli spazi della sovranità degli Stati, come potrebbe uscirne indenne l'Università? Noi pensiamo, al contrario, che i saperi impartiti nelle Università non debbano piegarsi ai bisogni congiunturali del capitale, ma debbano seguire innanzi tutto i progressi scientifici delle varie discipline al più alto livello. Rendere oggi più facile la laurea in ingegneria di un giovane, per impiegarlo più prontamente nell'apparato produttivo, sfoltendo tutti gli aspetti generali e fondativi della disciplina, significa condannarlo a una rapida obsolescenza delle sue competenze. La tecnologia cambia vorticosamente e bisogna dotare i nostri giovani di saperi generali, di attitudine critica, in grado di attrezzarli a operare nel flusso continuo delle innovazioni.
Noi, infatti, non crediamo che l'Università debba servire "per competere" e "per crescere", come suona la vuota retorica neoliberista. Al contrario, pensiamo che gli alti studi debbano essere la componente fondamentale di un Paese che progetta un nuovo modello di società, fondato sull'uguaglianza sociale, la solidarietà e la cooperazione, l'espansione della democrazia, il rispetto dell'ambiente e un mutamento radicale dell'attuale paradigma di accumulazione capitalistica.
La rivendicazione che noi facciamo di una maggiore libertà da impegni burocratici crescenti nasce ovviamente dalla preoccupazione di vedere ridotto il tempo che i docenti dedicano alla ricerca, e per quel che accadrà alla qualità dell'insegnamento. Non è certo ispirata a rivendicare il disimpegno e l'"imboscamento" nelle professioni di tanti docenti che stanno, come si dice, "nel mercato". Pratica di cui non sentiamo alcuna nostalgia. I sottoscritti, peraltro, non hanno mai avuto professioni private da gestire e posseggono curricula scientifici e popolarità fra gli studenti che li pongono al di sopra di ogni sospetto.
Gli autori dell'articolo esaltano i risultati della riforma cosiddetta del 3+2, perché avrebbe accresciuto il numero dei laureati, diminuito i casi di abbandono, allargato la base sociale di provenienza degli studenti, coinvolgendo anche le famiglie operaie. Utilizzando la stessa fonte dei nostri critici, il rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli (I nuovi laureati, Laterza 2012, d'ora in poi citato come FGA), noi perveniamo a risultati meno ottimistici, pur non tenendo conto dei danni alla qualità dell'insegnamento che quella riforma ha prodotto. È vero che il numero degli iscritti e dei nuovi laureati è aumentato, ma questo, nei primi anni di realizzazione della riforma, è stato un risultato statisticamente "drogato", mentre da alcuni anni si è del tutto arrestato, per incominciare a retrocedere. In quel numero, infatti sono confluiti i cosiddetti studenti "ibridi" come li chiama il rapporto FGA, vale a dire tutti gli studenti fuori corso e molti iscritti al vecchio ordinamento che hanno visto nella laurea triennale una vantaggiosa opportunità per conseguire la laurea. Oggi la «relativa maggiore apertura sociale nei percorsi triennali...si accompagna, però, ad abbandoni ancora elevati» (p.37). Non solo, il fatto è che i nuovi laureati si arrestano sempre più nei confini del triennio, dal momento che le lauree magistrali e a ciclo unico mostrano «una selezione sociale decisamente forte». Dunque, i figli degli operai che accedono all'Università sono sì aumentati, passando dal 19,9% al 25%, ma per conseguire una laurea di serie B. Oltre non riescono ad andare. E tali modesti risultati sono stati conseguiti a prezzo di un abbassamento culturale di insegnamenti ed esami assolutamente senza precedenti. Questi dati, d'altra parte, andrebbero letti entro una più ampia visione sociale dei problemi. Un tempo l'ambizione riformatrice della sinistra italiana era di fare accedere anche i figli degli operai ai saperi dell'alta formazione, mettendoli nella condizione materiale di giungervi. Non si pensava certo il contrario, di rendere cioè popolari i saperi per adeguarli alla modestia culturale dei loro fruitori. Oggi le cose sono profondamente mutate. Poiché nelle nostre Università la durata dei percorsi era lunga, la dispersione e gli abbandoni elevati, dove andava trovata la causa di tanti sprechi e fallimenti? Ovviamente negli ordinamenti universitari, nei curricula troppo lunghi e severi, nella vecchiaia delle nostre istituzioni. Eppure queste istituzioni sono state una parte fondamentale della modernizzazione italiana della seconda metà del Novecento. Come avrebbe potuto un paese come il nostro, uscito da una guerra rovinosa, privo di materie prime fondamentali, diventare uno dei maggiori stati industriali del mondo se le Università non avessero fornito i tecnici, i manager, i quadri dirigenti, gli intellettuali necessari alla bisogna?Li abbiamo importati dall'estero? E come sarebbe stato possibile il successo - universalmente riconosciuto - dei nostri laureati negli altri paesi, che ancora oggi si segnalano in tutte le discipline? Ma allora perché tanti studenti hanno fallito? Qui sta un punto che non ha minimamente sfiorato i riformatori di tutti i governi e che non sfiora oggi neppure i nostri critici. Gli studenti che hanno fallito provenivano per lo più da condizioni sociali e culturali che costituiscono un tratto speciale della situazione italiana. Chi ricorda i dati sull'analfabetismo di massa denunciati ripetutamente da Tullio De Mauro? Questo significa che un numero enorme di giovani non vedono mai un libro o un giornale in casa. E questi sono "punti di partenza" che pesano! Chi si ricorda delle drammatiche divaricazioni delle condizioni scolastiche tra Nord e Sud e anche all'interno delle stesse due aree? A Roma basta qualche chilometro di distanza per avere scuole e percorsi scolastici eccellenti accanto a istituti di bassa qualità, quando non degradati. Perdura, insomma, nella società italiana una netta frattura di classe dei percorsi formativi scolastici, che poi si traduce nei successi e nei fallimenti degli studi universitari.
È a valle che i governi avrebbero dovuto soprattutto intervenire, non trasformando l'Università in un caotico Liceo, dove si fa commercio di crediti. Capisco che questo invocato è un compito impegnativo, che ha a che fare con le strutture di classe e di dominio della società italiana. Obiettivo oggi troppo ambizioso per una sinistra impegnata in cose più importanti. Ma si poteva comunque fare qualcosa anche a monte, senza impegnarsi in conflitti ardimentosi, vale a dire al momento dell'ingresso degli studenti svantaggiati nell' Università. Ad esempio, con un buon sistema di tutoraggio e con il sostegno di borse di studio. Ebbene, proprio il rapporto FGA ci informa impietosamente che in Italia gli studenti beneficiari di una borsa di studio sono il 10% del totale, di fronte a oltre il 30% di paesi come la Francia e la Germania. Non solo: mentre la media di risorse spese in Italia per le borse era di 300 milioni l'anno (oggi ulteriormente decurtata), in Germania e in Francia sono «un miliardo e 400 milioni» (p.38).
Gli autori dell'articolo si dicono sconcertati per «il disprezzo che alcuni intellettuali hanno per la funzione occupazionale» degli studi universitari. C'è in questa considerazione una incomprensione rivelatrice di due diversi orizzonti culturali e teorici, di due diverse letture della società contemporanea. Intanto, nessun disprezzo. Nell'Appello consigliamo l'istituzione delle lauree brevi per gli atenei che le ritengano opportune. Ci sono nuove professioni - ad esempio in ambito biomedico - che hanno bisogno di percorsi specifici, a meta strada tra medicina, fisica, biologia, ecc. Ma il nodo del disaccordo è ben altro: è il rapporto tra mercato del lavoro e gli studi superiori. Noi crediamo che tutto il sistema universitario dell'età contemporanea, così come si è venuto configurando dall'800 in avanti, abbia ubbidito alle richieste del mercato del lavoro capitalistico. Per quale ragione sarebbero nate le Facoltà di Chimica, di Ingegneria, di Botanica, ecc.? Naturalmente, in passato la sfera della produzione privata e quella degli studi godevano di una marcata autonomia, «davano l'impressione di tenersi a reciproca distanza», come dice Zygmunt Bauman. Ma queste vecchie Università, entro società e Stati infinitamente più poveri di quelli attuali, si permettevano il lusso di tenere aperti corsi di epigrafia latina, etruscologia, lingue dell'antico Oriente, ecc. Oggi, la pressione esercitata sull'Università per rispondere alle richieste del mercato del lavoro, rende inconcepibili simili "sprechi". Che lavoro troveranno i giovani che si laureano in simili discipline? Quello che i nostri interlocutori non scorgono è l'enorme pressione culturale che il capitalismo va esercitando, in forme diverse da paese a paese, sulle strutture della formazione. Oggi sta riducendo gli spazi della sovranità degli Stati, come potrebbe uscirne indenne l'Università? Noi pensiamo, al contrario, che i saperi impartiti nelle Università non debbano piegarsi ai bisogni congiunturali del capitale, ma debbano seguire innanzi tutto i progressi scientifici delle varie discipline al più alto livello. Rendere oggi più facile la laurea in ingegneria di un giovane, per impiegarlo più prontamente nell'apparato produttivo, sfoltendo tutti gli aspetti generali e fondativi della disciplina, significa condannarlo a una rapida obsolescenza delle sue competenze. La tecnologia cambia vorticosamente e bisogna dotare i nostri giovani di saperi generali, di attitudine critica, in grado di attrezzarli a operare nel flusso continuo delle innovazioni.
Noi, infatti, non crediamo che l'Università debba servire "per competere" e "per crescere", come suona la vuota retorica neoliberista. Al contrario, pensiamo che gli alti studi debbano essere la componente fondamentale di un Paese che progetta un nuovo modello di società, fondato sull'uguaglianza sociale, la solidarietà e la cooperazione, l'espansione della democrazia, il rispetto dell'ambiente e un mutamento radicale dell'attuale paradigma di accumulazione capitalistica.
Piero Bevilacqua, Angelo D'Orsi
“il manifesto” 24.03.2012
L'Università come laureificio baronale e di casta, famigliare e parentale di dottori inutili ovvero come centro di ricerca a disposizione delle imprese del territorio in cui insiste?
RispondiEliminaA quando una Università dell'Olio e dell'Olivo?
A quando una Università della Pasta e del Pane?
A quando una Università delle Mozzarelle e dei Formaggi?
Pare sia arrivata l'ora di uscire dalla convegnistica ed entrare nel vivo della produzione agro-alimentare supportata e garantita dalla ricerca universitaria.
Altrimenti, questi laureifici baronali possiamo anche chiuderli e risparmiare un sacco di denari dei contribuenti.
http://www.ilcittadinox.com/blog/universita-produttivita-una-difficile-conciliazione.html
Gustavo Gesualdo
alias
Il Cittadino X