L’articolo di Culicchia, insieme celebrazione di Hemingway nel cinquantenario del suicidio e recensione di una sua nuova biografia, è molto persuasivo. L’autore di Morte nel pomeriggio costruì se stesso come personaggio da romanzo, tale effettivamente riuscì e, come tale, brillante e stereotipato. Il meglio che si possa trovare in Hemingway non lo si rintraccia attraverso il turismo culturale rincorrendone le tracce a Parigi, a l’Avana o in Kenya, ma leggendolo e rileggendolo, nella sua scrittura narrativa. (S.L.L.)
Molti anni fa a Parigi entrai alla Closerie des Lilas per chiedere dov’era solito sedere Ernest Hemingway. Ma non appena messo piede nel locale sul Boulevard Montparnasse scoprii che la direzione aveva pensato bene di prevenire questo genere di domande: decine di targhette di ottone indicavano ai vari tavoli i posti prediletti dai Mostri Sacri dei Roaring Twenties e seguenti. Qua Pablo Picasso, là James Joyce, e accanto a loro tutti gli altri, Scott Fitzgerald e Dos Passos, Gertrude Stein e Crystal Tzara. Quanto a lui, Hemingway, malgrado le pagine di Festa Mobile in cui aveva raccontato come per trovare la concentrazione necessaria a scrivere dopo la nascita del primogenito Bumby avesse scelto di lavorare a un tavolo d’angolo accanto alle vetrine da cui si intravedeva la statua del Maresciallo Ney, la targhetta con il suo nome era stata applicata al bancone del bar.
Questa scelta ai miei occhi ingenerosa costituiva una somma di tutti gli stereotipi della mitologia hemingwayana. Hemingway il beone, lo spaccone, il macho. Hemingway e le corride, le battute di pesca, i safari. Hemingway sempre pronto a tirare di box, inventarsi un cocktail, sparare a un’anatra. Hemingway lo specialista in guerre, tra cui la greco-turca, le due mondiali e la civile spagnola. Hemingway che amava vivere pericolosamente e aveva liberato da solo l’hotel Ritz e si era sposato quattro mogli e concesso svariati flirt, da Marlene Dietrich a Jane Mason, giovane e bionda miliardaria incontrata in Africa, alla nobildonna veneziana che gli aveva ispirato Di qua dal fiume e tra gli alberi . Poi c’erano l’Hemingway antitedesco e quello che faceva battute sugli ebrei. E l’omofobo. E il filocastrista, o forse l’anti. E quello che sosteneva di aver dato la caccia agli u-boot a bordo della sua Pilar. E il paranoico convinto di essere spiato dall’Fbi (era vero, tra l’altro). Una folla di Hemingway, insomma, dal diciannovenne in uniforme militare fotografato in un ospedale di Milano al vecchio con la barba bianca e il maglione da pescatore immortalato dalle parti di Key West.
E l’Hemingway scrittore? Quello che alla Finca Vigia si ostinava a battere a macchina in piedi e che alla Closerie e altrove si era sforzato di scolpire sulla carta una prosa spesso straordinaria e dialoghi ineguagliabili, vedi gemme quali Un posto pulito, illuminato bene o Colline come elefanti bianchi o Le nevi del Kilimangiaro , o ancora Breve la vita felice di Francis Macomber , per tacere naturalmente di Fiesta o di Morte nel pomeriggio, un romanzo che all’epoca venne stroncato dalla critica marxista perché il futuro Nobel si opponeva alla letteratura come presa di posizione politica?
Sparito, inghiottito dal personaggio e dalle sue innumerevoli sfaccettature. Un personaggio che egli stesso d’altronde si era premurato di costruire in vita, facilitando l’opera di tanti biografi a cominciare da Scott Donaldson, Carlos Baker e dall’amico Aaron E. Hotchner, e agevolando il sarcasmo spesso feroce e non solo postumo di innumerevoli, volenterosi e non di rado interessati denigratori. Così, a 50 anni esatti dal suicidio di quello che al di là di tutto (e dunque anche delle mode e delle invidie letterarie e dei mutamenti del costume e dei costumi, tra cui l’avvento in epoca recente del politicamente corretto: secondo nuove ricerche nell’ottica dei gender studies, Hemingway era semplicemente «un giovane disturbato») resta con buona pace di tanti snob il maggior scrittore americano del Novecento, è con interesse che si legge la nuova biografia di Linda Wagner-Martin (Una vita da romanzo) ora tradotta da Castelvecchi.
E l’interesse deriva in primo luogo dal fatto che l’autrice muove a partire da un elemento che pochi associano all’autore di Il vecchio e il mare, ovvero dall’ironia: quella insita nel fatto che un uomo tanto complesso sia stato ridotto a un personaggio così stereotipato. Una delle creazioni più riuscite di Ernest Hemingway, ci dice la Wagner-Martin, fu proprio Ernest Hemingway, inteso sia come persona vivente sia come personaggio di finzione. L’ex ragazzino cresciuto all’aria aperta in Michigan sapeva fin troppo bene di essere diventato, oltre che uno scrittore, una celebrità.
L’altra scelta di questa biografia è quella di raccontare Hemingway innanzitutto attraverso i suoi rapporti con l’universo femminile, dalla madre Grace Hall (una di quelle donne che ritengono che i figli debbano diventare immagini speculari dei genitori) alle mogli (che lui voleva sportive e forti, anche se Pauline, la seconda, detestava la pesca e non poteva fare a meno di tate e servitù), passando per le sorelle e per figure rivelatesi fondamentali durante gli anni del suo apprendistato parigino, quali Sylvia Beach e Gertrude Stein. In quella vera e propria miniera che è la corrispondenza dello scrittore con consorti e fidanzate, ma anche con amici, editori, colleghi, la Wagner-Martin ha rintracciato svariate vene aurifere e inevitabilmente anche non poca di quella materia che oggi va sotto il nome di gossip.
Ma l’Hemingway che ritroviamo in queste pagine, ora vitale e felice grazie alla scrittura di un nuovo libro o alla pratica dei suoi sport preferiti o alla frequentazione di una delle sue donne, ora ferito e irascibile perché alle prese con la propria fragilità e aggredito dalle paure economiche e dalla depressione (di cui aveva sofferto il padre Clarence, a sua volta suicida come poi altri discendenti della famiglia Hemingway, tra cui l’attrice Margaux), ci appare credibile a cominciare dalla sua imprevedibilità e dal suo non facile carattere, sperimentato tra gli altri anche da Scott Fitzgerald.
La biografa ha poi l’umiltà di ammettere che la grandezza dell’Hemingway scrittore rimane la sua più autentica biografia. E con questo rende giustizia a un uomo convinto che per uno scrittore la cosa fondamentale fosse lo stile, uno stile capace di durare nel tempo.
“Tuttolibri – La Stampa”, 25/06/2011
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