Ti guardavo: il nemico incalzava.
Ero pronto a colpirlo — o entrambi noi
mancando la salvezza — per non mai dividere
con chi amavo altro che libertà e amore.
Ti guardavo: sui frangenti la roccia
accolse la prua — intorno tempesta e paura.
Ti feci stringere a me a ogni colpo dei flutti
per scafo offrendo il braccio, per bara il petto.
Ti guardavo: la febbre gli occhi ti velava
cedetti il giaciglio e mi sdraiai per terra
stremato dalla veglia, pronto a mai più levarmi
ove tu avessi incontrato una precoce tomba.
Venne il sisma, e scosse le mura tremanti.
Barcollavano, come ebbri di vino, uomini e cosmo.
Di chi andai in cerca nel palazzo in rovina?
Di te. E tua fu la salvezza che procurai per prima.
E come i convulsi spasimi negarono al respiro
la più flebile voce delle svanenti cure
A te — a te — pur nell'affanno della morte
l'animo si volse, oh! troppo frequente.
Tutto questo, e altro; eppur tu non mi ami
né mi amerai! Non abita Amore il nostro volere.
Né posso io biasimarti: benché sia mio destino
con impeto, a torto, e invano amarti ancora.
Nota. Questa poesia, senza titolo, è l'ultima composizione scritta da Byron prima di morire. Pubblicata in Inghilterra nel 1844, e da allora mai più ristampata, rimase a lungo un inedito per l'Italia. Presento qui la prima traduzione, di Benedetta Bini, per “L’Espresso” del 4 dicembre 1988.
Nessun commento:
Posta un commento