Benozzo Gozzoli, Il battesimo di S.Agostino, San Gimignano |
Su l’Unità, quasi trent’anni fa, questa splendida lettura di un grande classico da parte di Giovanni Giudici, condivisibile fin nelle virgole, ricca di spunti da approfondire. La propongo anche per rammentare la fitta trama di letture da cui nasce la poesia di Giudici. (S.L.L.)
Giovanni Giudici |
Nel giro di poco tempo sono apparse due nuove edizioni delle Confessioni di Sant'Agostino: entrambe nella persuasiva e ispirata traduzione di Carlo Carena, ma diverse nell'apparato critico che le accompagna e che giustifica la differenza di prezzo. Una, nella NUE Einaudi, costa trentamila lire; l'altra, nella nuova collana «Uomini e religioni» degli Oscar Mondadori, ottomila.
Tanto le Confessioni mi apparivano lunghissime, e forse un po' noiose, al tempo delle letture giovanili (al punto che per molti anni ci si limitava a leggerne, ogni tanto, un passo qua e là) quanto nel riavvicinarle a distanza di decenni ci si trova confermati in quella che, a loro riguardo, è del resto opinione autorevole o diffusa: essere cioè quest'opera di uno dei massimi esponenti del pensiero cristiano, anzi cattolico, una specie di «libro dei libri» dal quale, per oltre quindici secoli, un po' tutti hanno attinto, teologi e letterati, poeti e filosofi.
È noto quanto vi si specchiasse il Petrarca che, nel suo Secretum, elesse Agostino a proprio interlocutore; ma tanti altri nomi potremmo aggiungere a quello del nostro grande poeta: quelli dei mistici secenteschi della filosofia «positiva», o di grandi uomini di religione come Calvino e poi il cardinale Newman, o di filosofi moderni come Karl Jaspers, o di romanzieri come Stendhal («amoureux de l'amour», innamorato dell'amore, è infatti espressione agostiniana) o Camus, per citarne appena alcuni. André Gide trovava Agostino insopportabile (in ciò preceduto dai maestri della tradizione illuministica, Voltaire in testa), ma un William Wordsworth se n'era fatto quasi un modello per The Prelude, il suo sterminato poema autobiografico.
Persino in un poeta che se ne riterrebbe lontanissimo, come Guido Gozzano, troviamo qualche aurea pagliuzza (il «non essere più», il «non essere ancora» spigolata nella miniera del vescovo di Ippona. Ma non solo: il fatto più importante è che (sempre parlando di una soggettiva esperienza) Le confessioni si possono oggi rileggere, fatta esclusione probabilmente degli ultimi libri, più dottrinari nella materia, come una specie di autobiografia dell'anima e del corpo che s'interrompe al momento in cui il suo Autore non ha più molto interesse per la propria persona, essendo diventato «uomo di Dio»; ed anche come una sorta di antropologia nel loro raccontare la storia di un uomo che è teso alla ricerca (l'espressione, citata da Carena, è di Jaspers) dell'«umanamente impossibile».
Che cosa, infatti, può attirare un lettore di oggi al libro che Agostino, ormai prete e vescovo nella sua Africa romana, dopo i lunghi e decisivi soggiorni prima a Roma e poi a Milano, compose sul finire del IV secolo, quando aveva quarantacinque anni? A mio parere è la straordinaria umanità della figura che ne emerge e che dissacra (forse con qualche esagerazione autocritica o autopunitiva) l'idea asettica e sostanzialmente falsa che si potrebbe avere di un Santo. Qui ci troviamo davanti a un giovane intellettuale al quale piacevano prima di tutto le donne e poi anche il vino (la sua stessa madre Monica, santa lei pure, non disdegnava ancora fanciulla di berselo addirittura, e di nascosto, al fiasco); gli piacciono spettacoli e corse di cani nel circo all'inseguimento della solita lepre di cartapesta); non è alieno dalle vanità letterarie e gli piace anche fare un minimo di carriera, sì che non disdegna, quando fa il professore di retorica a Milano, di pronunciare un panegirico del giovane imperatore Valentiniano II...
E nessuno che legga Le confessioni potrà dimenticare la penosissima pagina in cui il Nostro racconta (con una laconicità che è si direbbe dettata dalla vergogna) come, per agevolare un matrimonio di convenienza che poi non ebbe luogo, non esitò (incoraggiato dalla sua santa mamma) a rispedire da Milano in Africa la donna con cui «si coricava» (questa è l'espressione) da circa quindici anni e che gli aveva dato anche un figlio. Il figlio (che morì appena diciassettenne) è chiamato col suo proprio nome di Adeodato; ma alla madre, alla donna appunto che gli «fu strappata dal fianco, quale ostacolo alle nozze», lo scrittore non dà nessun nome nelle sue pagine, pur ricordando che aveva avuto per lei «la fedeltà d'un marito». Agostino si preoccupa di precisare che «il mio cuore, a cui era attaccata, ne fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo»; ma di lei non scrive che avare parole, un frettoloso congedo, quasi un'epigrafe: «Essa partì per l'Africa, facendoti (a te, Dio: l'interlocutore delle Confessioni) voto di non conoscere nessun altro uomo»... Mentre il lettore non riesce a non pensare a quale doveva essere lo stato d'animo di quella poveretta, liquidata senza tanti complimenti e rispedita via mare al paese d'origine.
I commentatori spiegano, naturalmente, che un trattamento così non è da ritenersi particolarmente crudele, considerando quella che era ai tempi di Agostino la condizione di asservimento della donna; e così pure ridimensionano le varie concupiscenze del futuro Dottore della Chiesa, non solo perché è da pensare che lui calcasse un po' la mano nel dipingere i suoi vizi, ma anche perché il costume del tempo era, anche in ambito cattolico, piuttosto longanime in materia sessuale (per esempio, il concubinato senza matrimonio non era di per sé considerato peccaminoso: e poi Agostino si era fatto battezzare, dal vescovo Ambrogio, soltanto nel 387, poco prima di lasciare Milano).
Ma questi elementi di biografia non sono forse altrettanto importanti e coinvolgenti di altri che, una volta addentratisi nella lettura, costituiscono il grande fascino di quell'appassionato colloquio con Dio che le Confessioni (confessioni in tutti i sensi: nel senso di confessione dei peccati, ma anche di testimonianza e riconoscimento) intendono essere: ed è fin troppo facile rimandare il lettore a certi folgoranti episodi (come l'«illuminazione» che l'Autore riceve nel giardino di Cassiciaco, vicino a Milano, o la visione di Ostia dove Monica muore mentre, con figlio e nipote, è di nuovo in viaggio per l'Africa) o gli straordinari e ultrasaccheggiati (dai posteri) capitoli sulla memoria e sul tempo, proustiani avant-la-lettre... O ancora a certe sottili e penetranti anticipazioni di quella che sarebbe stata, secoli dopo, una troppo abusata e avvilita casistica, ma che in Agostino riflette una pura luce d'intelligenza e di pietà cristiana: «Spesso sono diversi l'aspetto di un'azione e le intenzioni di chi agisce, come pure il groviglio delle circostanze a noi ignote». I grandi mistici futuri se ne sarebbero ricordati...
In un cristianesimo ancora giovane, ricco di fermenti, inquietudini e contraddizioni, Le confessioni dovettero irrompere come un libro davvero rivoluzionario che tale sarebbe rimasto e continua, sotto molti aspetti, a restare anche per noi, a ciò contribuendo indubbiamente il suo altissimo assetto formale, la sua agguerrita retorica, il suo compatto fluire di lingua poetica. La sua forza fu, insomma, la forza stessa di un cristianesimo che «al centro e alla periferia, con le sue istituzioni gerarchiche e il suo messaggio fresco e sincretistico, loquace alle plebi» andava (come scrive Carena) «occupando gli spazi lasciati vuoti da un'autorità politica assente e debole o da una cultura ormai esaurita». E dunque non sembrerà inattuale, in un tempo anche oggi di forme politiche in crisi e di cultura sempre più da Basso Impero, proporre o riproporre la lettura di questo libro dominato dall'ansia del Cercare...
"l'Unità", 27 agosto 1984
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