27.6.12

Dante. Il canto VI dell'Inferno letto da Tiziano Scarpa (Corsera 2004)

Dalla giornalistica lectura Dantis organizzata nel 2004 dal “Corriere della Sera” (La nostra Commedia) riprendo uno stralcio di Tiziano Scarpa sul canto VI dell’Inferno. Ho gradito molto l’approccio materialistico e sensistico con cui Scarpa interpreta la pena. Ho trovato invece inappropriate e perfino un po’ banali le considerazioni che lo scrittore fa sulla parte politica del canto, fondate come sono su un’arbitraria generalizzazione e attualizzazione (“gl’Italiani sono fatti così”). Non le ho riprese, rinviando l’ipotetico curioso al sito del “corrierone”. (S.L.L.)

In un pomeriggio d’agosto l’avrà sorpreso la grandine: «Riecco l’inferno». Perché l’inferno si fa vivo spesso, nella vita. Per farne esperienza basta una grandinata che ti prende a sassate in una pianura senza ripari.
Il terzo cerchio è il cerchio della pioggia. Questo è l’Inferno della Pioggia. Dante non sa ancora quale sbaglio dell’umanità sia punito così. Per il momento sa solo che qui dentro piove.
E’ una pioggia interminabile, infame, gelida, pesante: etterna, maladetta, fredda e greve. Non succede mai, in tutto il poema, che si sprechino così tanti aggettivi in sequenza. Dante sta insultando la Natura. Sta riassumendo in un colpo solo, con quattro aggettivi, la sua insofferenza per il clima. È un’invettiva contro il brutto tempo, invernale ed estivo, sintetizzata in una frase. Quattro aggettivi, dieci grumi di consonanti: sei sono suoni doppi, pieni di rancore fonetico: tt, rn, tt, fr, dd, gr. Le parole digrignano. La lingua preme rabbiosa contro i denti.
Le anime sono distese a terra. Non sono più padrone del proprio peso. Sono succubi totali. A una di loro viene concesso di tirarsi su per qualche minuto, riesce a mettersi seduta giusto il tempo per scambiare due chiacchiere con Dante. Ma quando la conversazione finisce, crolla di nuovo giù, per sempre. Dunque la punizione consiste nel non avere più il controllo dei propri muscoli, se non per rigirarsi cercando riparo nel vicino. Il castigo è questo: essere puro peso. Giacere slacciati. Sparpagliati a terra. Sotto la pioggia gelida. Martellati dalla grandine. In un incubo assordante: scrosci, grida, latrati. Un orco si aggira a mordere e strappare. Non si può sfuggire.
Dante calpesta una pianura di anime. Spiriti mescolati alla terra viscida, impastati di fanghiglia. Non si riesce più a distinguerli dall’acquazzone, formano una mistura sordida, sono pozzanghere d’anima, acqua sporca.
«Soffriranno di più, quando gli verrà restituito il loro corpo?» chiede Dante alla sua guida.
«Sì. Chi è completo soffre di più». Dunque noi, qui, in carne e spirito e ossa, soffriamo più delle anime infernali.
Da vivi, questi uomini apprezzavano la raffinatezza della civiltà, il vertice della cultura materiale: la cucina. Le buone ricette. Il trionfo dei sensi: la tavola apparecchiata, il profumo dei manicaretti, i sapori succulenti, la conversazione con i commensali, al caldo, in una bella sala, con i suonatori che decorano di musica l’atmosfera. Adesso il ristorante è uno sfracello di intemperie ghiacciate, si sentono solo urla disumane e la puzza dei loro corpi fradici, terrorizzati, terrei nella melma marcia. C’è un’unica portata nel menu: una brodaglia di anime putrefatte, una secchiata di vermi umani scaraventati a terra. I golosi sono diventati cibo. Il padrone della nuova gestione ne pilucca qualcuno con gli artigli, li scortica come si spella un salume. Sono avanzi andati a male, materiale da masticazione per una bestia malgustaia che non sa distinguere la carne umana, l’anima umana, da un boccone di fanga putrida. Lo spirito è condannato a essere materia.
Come li avremmo puniti, noi poeti mediocri, i golosi? Probabilmente con un effetto speciale banale. Trasformandoli in maiali che frugano nel fango. Dante fa di più, li degrada di più: li mantiene umani, ma li amalgama alla melma. Mescola la cosa più nobile con la cosa più infima: l’anima e la poltiglia lurida.

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