18.6.12

Francesco Jovine e “Signora Ava”. Dalla parte dei cafoni (Massimo Raffaeli)

Finalmente, grazie a Massimo Raffaeli, una lettura del romanzo apparso nel 1942, capace di segnalarne insieme l’irriducibilità a un impegno già in qualche modo “neorealista” e le divergenze dal meridionalismo aristocratico e fatalista. Segnalo tuttavia quella che mi sembra, nonostante le enormi differenze di impianto e di genere narrativo, una vicinanza da studiare: con Conversazione in Sicilia. Anche lì il rapporto scrittore-popolo s’origina da un atto d’amore. Ma in Vittorini è denuncia dell’incolmabilità della distanza, qui immedesimazione, provvisoria e precaria quanto si vuole, ma immedesimazione. (S.L.L.)
Guardialfiera (Campobasso)
Il tricolore in fiamme davanti a una discarica da cui risuonano i tumulti di una sollevazione popolare insieme con il passo degli agenti antisommossa è l'istantanea più recente della questionale meridionale e perciò della guerra tra «cafoni» e «galantuomini» che sembra confermare in eterno i pronostici del Principe di Salina, nel Gattopardo, secondo cui tutto sarebbe cambiato perché tutto rimanesse com'era: appunto, le parole di un uomo infinitamente cinico e reazionario, di un nobile che vedeva il mondo solo dalla parte dei nobili.
Una splendida eccezione al meridionalismo aristocratico e fatalista è Signora Ava (1942) di Francesco Jovine, scrittore a lungo sottovalutato e quasi dimenticato il cui capolavoro viene riproposto da Goffredo Fofi, suo lettore di lungo periodo, che firmandone la prefazione (nella nuova edizione di Donzelli, n.d,r.) ricorda come gli «si è rimproverata, da destra come da sinistra, la stessa cosa: di non essere un borghese, ma solo un intellettuale di origine contadina attardatosi a studiare il suo mondo».
Molisano di Guardialfiera, dove nasce nel 1902, maestro elementare e poi direttore didattico (già assistente di Giuseppe Lombardo Radice, sposerà Dina Bertoni, insigne storica della scuola), Jovine muore a Roma a soli quarantotto anni, nel 1950, al culmine di una biografia breve e bruciante che annovera soggiorni all'estero tra Tunisi e Il Cairo, la partecipazione alla Resistenza e una successiva militanza nel Pci. Legatissimo alla terra d'origine cui dedica numerosi reportage e i racconti di L'impero in provincia (Einaudi 1945), firma appena tre romanzi, da Un uomo provvisorio ('42) che svela paradossalmente un autore di educazione cosmopolita e un lettore di Freud, a Le terre del Sacramento (Einaudi 1950), opera di grande ambizione che, uscita postuma e in piena Guerra fredda, lo imprigiona tuttavia nell'etichetta di scrittore neorealista o persino di adepto di un realismo socialista all'italiana. Romanzo baricentrico, Signora Ava rivela viceversa una complicità primordiale con la propria materia, a partire dal titolo che rovescia un'indulgente oleografia settentrionale («il tempo in cui Berta filava») nell'immagine più decrepita dell'Ancien Régime in Meridione che, stando ad una filastrocca popolare, condannava a morte gli amanti clandestini.
Lo spazio del romanzo è il microcosmo che in Molise unisce Guardialfiera e Larino, il tempo è scandito dai fatti del 1860 e dunque tra l'arrivo di Garibaldi, l'eclissi del regime di Franceschiello e la resistenza dei «briganti» borbonici e sanfedisti. A sua volta la struttura è divisa nettamente in due parti: la prima è tutta d'atmosfera, dominata dal grigiore in cui vegetano i nobili De Risio, esponenti di un mondo che agonizza nei suoi riti atavici, mentre la seconda precipita a ritmo incalzante nella storia d'amore e morte tra la giovane Antonietta De Risio e un domestico dal nome fatale, Pietro Veleno, il quale la rapisce, la sposa e con lei si dà alla macchia per combattere contro le Camicie Rosse e le Guardie Nazionali. Scagliati in una centrifuga troppo più grande di loro, accecati dalla fedeltà ad un mondo la cui sola perfezione è l'inerzia, entrambi pagheranno il prezzo più alto.
Pubblicato dieci anni dopo Fontamara di Ignazio Silone, Signora Ava ne retrocede di mezzo secolo gli ambienti ma ne ribadisce sia l'impianto corale sia la collocazione del punto di vista, che si vuole fraterno e d'en bas. Fermo al dettato di una lingua scabra senza essere arida, a momenti elettrizzata dal discorso libero indiretto, Jovine non prende mai direttamente la parola se non per interposto personaggio, nel qual caso è la figura di un prete, don Matteo Tridone, che davvero non ha eguali nel nostro Novecento letterario: un uomo che è parte integrante di un presepe senza tempo eppure sa trascenderlo per un suo particolare stato di perplessità dove si alternano il buon senso e il gaio ottimismo della persona umile ma anche il disincanto di colui che guarda al Sud inabissato, materia da etnologi e folcloristi, con gli occhi di un morituro.
Don Matteo ora è il Socrate dei novelli sposi, ora invece un don Abbondio e il subalterno silenzioso alla mensa dei nobili, ma egli resta un personaggio a tutto tondo nella cui humanitas non è prevista, per necessaria eccezione, l'arroganza del Principe di Salina. Parla volentieri anche lui per proverbi, ma gli sbottano da dentro o comunque gli vengono dal basso della condizione umana: «Tutti grassi Re e galantuomini, i cafoni tutti magri: chissà perché?»; oppure: «Quando si misurano Ducati a staia, si dice bello a chi è brutto». E' il primo a esporre in chiesa il tricolore ma finisce con i suoi pupilli tra le fila dei briganti, tanto che il lettore di Signora Ava è costretto ogni volta a domandarsi da che parte esattamente stia: sempre sospettato di tradire la classe d'origine, il paradosso di don Matteo è la vendetta del medesimo Francesco Jovine, un galantuomo consapevole di esserlo che, per amore del suo mondo, provò a guardarlo finalmente dalla parte dei cafoni.

“La Stampa” 12/11/2010

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