23.6.12

Riots. Sommosse e classi pericolose (di Marco D'Eramo)

Improvvisamente l'estate scorsa sommosse in Inghilterra. Il commento di D'Eramo, sul "manifesto", è l'unico a dare spessore storico e critico alla riflessione. (S.L.L.)
1981, "Riots" a Brixton
A ragione nell'800 le chiamavano «le classi pericolose». Erano quelle classi - dai proletari in giù - che costituivano un pericolo per l'ordine borghese e la sua polizia, ed erano le classi per cui la polizia dei borghesi era un pericolo costante, una minaccia sul collo.
A leggere gli articoli, a guardare i servizi televisivi sulle sommosse urbane che in queste notti scuotono la Gran Bretagna, sembra di rivivere l'orrore del benpensantismo borghese ottocentesco di fronte alle folle «urlanti, bestiali, animalesche e minacciose».
Le sommosse di Tottenham, Hackney, Leeds, Brixton, Birmingham sono narrate come lo scatenarsi immotivato e irragionevole di una bestia primordiale. Una violenza ferina contro cui la polizia sarebbe troppo mite, mai abbastanza dura, come se fosse il permissivismo, anzi il lassismo capitalista moderno il responsabile di questi sussulti tellurici delle nostre società tecnologiche del Terzo millennio.
Non per nulla sono chiamati «disordini», perché vogliono scompigliare l'ordine, o reagire e scrollarsi di dosso un ordine che li disciplina, li sorveglia (e li punisce). Ogni volta sembra sempre la prima volta. Ogni rivolta appare inedita, imprevista, inusitata, come se sfuggisse a ogni logica.
Ma così non è. I riots, così li chiamano gli inglesi, le sommosse, le rivolte, i disordini scandiscono tutta la storia britannica, punteggiano la lunga lotta della classe operaia, accompagnano il zigzag delle discriminazioni razziali. Soprattutto sono legati a doppio filo alle recessioni economiche e alle politiche anti-popolari. Non sono «eruzioni»; sono appunto ri-volte che si volgono contro.
Basta guardare alle date dei riots per scoprire che la correlazione tra recessione, politiche liberiste e disordini è perlomeno «statisticamente significativa», direbbero gli analisti. Come non ricordare che la più «disordinata», la più «sommossa» (nel senso del participio passato), la più «rivoltata» è stata la Lady di ferro, Margareth Thatcher, seguita dal suo successore John Major. Tra il 1979 e il 1997 (data in cui salì al potere Tony Blair) si contarono quattro grandi ondate di riots. La prima avvenne nel 1981, in piena recessione economica e in piena offensiva del thatcherismo (Thatcher era diventata premier nel 1979), con i disordini razziali di Brixton (280 feriti tra le forze dell'ordine, più di 100 veicoli bruciati di cui 45 della polizia, 150 edifici danneggiati, 82 arresti), disordini che dilagarono al quartiere Handsworth di Birmingham, di Southhall a Londra, di Toxtet a Liverpool, di Moss Side a Manchester, di Hyson Green a Nottingham. Altri disordini furono registrati a Bristol, Bedford, Coventry, Edimburgo, Gloucester, Halifax, Leeds, Leicester, Southhampton, Wolverhampton.
Nel 1985 Brixton si sollevò di nuovo. E poi vi fu il grande ciclo del 1990-91 (di nuovo in piena recessione, di nuovo in piena offensiva thatcheriana con il progetto di Poll Tax): proprio contro la Poll Tax disordini scoppiarono nel 1990 in tutta la Gran Bretagna, seguiti l'anno successivo da una sommossa a Meadow Well. L'ultima ondata si abbatté nel 1995 sotto il governo di John Major, e i due riots più importanti divamparono a Manningham e di nuovo a Brixton.
In confronto, l'unica ondata seria di guerriglia urbana che dovette affrontare il governo laburista di Tony Blair prima e Gordon Brown poi fu quella del 2001 con i disordini di Bradford, di Oldham e di Harehills a Leeds: e furono anche gli unici riots in un periodo di crescita economica (per completezza, nel 2005 vi furono disordini a Birmigham).
Da questa cronologia la correlazione stretta tra politiche liberiste, crisi economica e sommosse risulta inconfutabile. Ma allora dobbiamo concluderne che anche i riots di queste notti forse dovrebbero essere interpretati alla luce della crisi e della politica del governo di David Cameron. E quindi la rivolta non sarebbe assurda, inspiegabile, gratuita, ma rientrerebbe in un preciso (e razionale) schema di comportamento politico della società inglese che si ripete con regolorità a ogni ciclo economico. Forse i tagli alla spesa pubblica decisi dal suo governo Cameron-Clegg non hanno ancora cominciato a far sentire i loro effetti; forse lo sfrondamento del welfare ancora non ha colpito duro. Ma invece la crisi occupazionale che dura da quattro anni quella sì che mazzola i ceti più fragili. E soprattutto gli emarginati percepiscono benissimo il mutato clima nell'apparato repressivo, il deteriorarsi dei rapporti con le forze dell'ordine che segue ogni svolta conservatrice del vertice politico.
Il fatto è che noi abbiamo un'immagine distorta delle recessioni precedenti, immagine che ci fa commettere gravissimi errori di prospettiva nel valutare la nostra recessione. Per esempio, tutti fingono di scordare che la Grande Crisi scoppiò nell'autunno del 1929, ma i suoi effetti in tutta la loro gravità si videro solo nel 1932, cioè tre anni dopo (quando fu eletto Franklin Delano Roosevelt). E tutti fingono di non ricordare che nel primo anno Roosevelt adottò politiche economiche tutto sommato «classiche», volte a salvare innanzitutto il sistema finanziario: e fu solo a partire dal 1933-34, cioè ben quattro anni dopo l'inizio della crisi, che si assistette alle prime grandi lotte operaie, dei tessili negli stati del sud, dei portuali sulle due coste, dei metalmeccanici a Flint e Detroit. E fu solo dopo questa impressionante mobilitazione di massa, che il presidente si decise a varare quello che noi conosciamo come il New Deal. E non lo fece a cuor leggero: tanto che, appena dopo essere stato rieletto, e quando pensò che l'economia si era ripresa, quasi otto anni dopo l'inizio della crisi, nel 1937 Roosevelt si lasciò convincere dai fautori del pareggio del bilancio e ripiombò l'America in un'altra recessione, da cui sarebbe uscita solo attraverso la seconda guerra mondiale e il «keynesismo bellico».
Insomma, gli effetti delle crisi gravi e delle politiche di austerità si vedono nel medio-lungo termine, dopo tre-quattro anni. Questo c'insegna la storia. E fra un mese appunto celebreremo i 3 anni dallo scoppio (ufficiale) della crisi, da quel 15 settembre in cui fallì la Banca Lehman Brothers e i 4 anni da quando cominciò a forarsi la bolla dei mutui subprime. I falò delle strade inglesi sono l'avvisaglia di quel che aspetta tutta l'Europa.

"il manifesto" 10 agosto 2011

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