7.6.12

Steinbeck sentimentale? Obiezioni ai detrattori di “Furore” (di Piero Sanavio)

Nel 1932 si registrarono quattordici tempeste di polvere nelle Grandi Pianure del Nordovest americano ma il nome di Dust Bowl (catino di polvere) vennedopoil disastro che il 14 aprile 1935 colpì il Colorado, il Kansas meridionale, l’Oklahoma e il Texas. In quella zona essenzialmente agricola, nubi di sabbia e terra portate da un vento d’apocalisse coprirono i campi scoperchiando case, silos e granai, disperdendo il bestiame in cerca d’erba e di acqua, e creando un deserto.
Già oppressi dalla crisi economica, con le banche che chiedevano il pagamento immediato dei prestiti, le vittime più dirette, i mezzadri, decisero di lasciare i luoghi per la terra miracolosa della California.
Furore (The Grapes of Wrath, L’uva dell’ira), scritto da Steinbeck sui migranti dell’Oklahoma e basato su sue inchieste giornalistiche, vide la luce nel 1939 e malgrado ottenesse il Pulizter non incontrò subito il favore della critica.
Bandito per oscenità nella contea di Kern, California, fu attaccato da politici e giornalisti per la sua visione «troppo negativa» del reale, le simpatie «socialiste», la promiscuità sessuale dei personaggi, il linguaggio mimetico delle classi sociali che popolano la narrazione.
Lyle H. Boren, deputato dell’Oklahoma, si preoccupò di rassicurare il Congresso che «se togli al libro le sue volgarità, non ne resta che la copertina».
Il romanzo non piacque neppure a Edmund Wilson, critico progressista e mediocre romanziere, che lo liquidava come «un’opera di propaganda». Il rigido menscevico Philip Rahv, uno dei fondatori della «Partisan Review», lo trovava invece «sentimentale, troppo lungo, troppo didattico». In occasione della recente ristampa di tutta l’opera narrativa di Steinbeck da parte dell’America Library, un’operazione che ripropone i classici americani in volumi rilegati e su carta senza acidi, l’accusa di superficialità e sentimentalismo è riaffiorata.
Dal punto di vista dello stile Steinbeck – di cui ricorre quest’anno il cinquantenario del premio Nobel – non è certo scrittore rigoroso, e innegabili sono le ricadute sentimentali delle quali, però, Furore è il meno affetto. Alternare alla narrazione capitoletti dove anonimi migranti discutono dei loro problemi, o sono offerte indicazioni sulle condizioni ambientali e la situazione sociale del Sud-ovest americano, conferisce alla narrazione una prospettiva storica e sociologica tanto più apprezzabile quanto (pace Rahv) scevra da didatticismi. Ci consegna intatte, pur settant’anni dopo, le apprensioni e disillusioni di quegli anni.
La denuncia sociale, implicita nei fatti narrati, non possiede la retorica dei romanzi di Theodor Dreiser né i sentimentalismi di Sherwood Anderson, e flagrante è la volontà di creare un epos – il famoso Grande Romanzo Americano al quale aspiravano tutti gli scrittori di quel periodo. Il progetto è già chiaro nel titolo, frammento di un verso del Battle Hymn of the Republic composto da Julia Ward Howe sul versetto dell’Apocalisse.
Quanto alla retorica. Tom Joad, che all’inizio del romanzo torna a casa dopo aver purgato sette anni di carcere per avere ucciso un uomo, verso la fine del romanzo uccide un poliziotto che ha assassinato un sindacalista. Deciso a diventare lui stesso un organizzatore sociale, per non cadere in mano alla polizia e, con quel secondo omicidio, guadagnarsi l’ergastolo se non magari la sedia, deve lasciare la famiglia, fuggire in un altro stato. Congedandosi dalla madre, che non vorrebbe partisse, le spiega che anche se assente le sarà sempre accanto: «Io sarò dovunque. Dove un poliziotto alzi il bastone, dove ci si batta perché chi ha fame possa mangiare, io ci sarò». La frase, ripresa da John Ford nel film tratto dal romanzo, è una citazione da un celebre discorso di Eugene Debs – e per Tom Joad una dichiarazione di allineamento politico espressa nel solo linguaggio che sua madre poteva capire, quello dei predicatori itineranti, che era poi il linguaggio di Debs.
Ferroviere, sindacalista, per un breve periodo senatore democratico dell’Indiana nonché fondatore del partito socialdemocratico americano, del primo sindacato dei ferrovieri (A.R.U.) e dell’I.W.W. (Industrial Workers of the World), che raggruppava il sindacato dei minatori di Big Bill Heywood e il partito laburista di Daniel De Leon, Eugene Debs era stato incarcerato più volte per quelle attività. Condannato a dieci anni dal presidente Woodrow Wilson per la sua opposizione alla guerra e liberato, ma non perdonato, dal presidente Harding nel 1921, era morto di un attacco di cuore nel 1926.
John Dos Passos, nell’introduzione all’edizione in un solo volume (Harcourt-Brace, 1938) della trilogia The 42nd Parallel, 1919 e The Big Money, raggruppata per la prima volta sotto il titolo U.S.A., spiegava che «U.S.A. mostly is the speech of the people» – quei tre romanzi erano soprattutto la lingua della gente.
Il discorso può essere ripetuto legittimamente per Furore ed è questo, o anche questo, che ne fa un grande romanzo americano – insieme al ricorrervi delle utopie dove l’afflato religioso per la conquista della Terra Promessa mai si discosta da quello sociale, l’illusione di un Paese dove ci sia posto per tutti e l’ottimismo menzognero del secolo dei Lumi possa essere realizzato. I romanzi di Dreiser, di poco anteriori, sono racconti di un tedesco che scriveva in inglese percependo il reale attraverso i moduli del naturalismo europeo – un’ottica inadeguata per scandagliare un Paese dove, accanto alla brutalità dei rapporti di classe, non dissimile da quella europea, c’è (c’era?) una mobilità sociale del tutto impensabile nel vecchio continente. I romanzi di Pietro Di Donato (il cui Christ in Concrete scalzò Furore dalla lista del libro del mese) e John Fante restano lacrimose testimonianze di immigrati italiani legati ancora ai loro luoghi d’origine e scrivono in una lingua che non gli appartiene.

alias 29/1/2012

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