5.7.12

Edoardo Boncinelli legge Dante (II Canto dell'Inferno)

Dalla giornalistica lectura Dantis organizzata nel 2004 dal “Corriere della Sera” (La nostra Commedia) riprendo uno stralcio dall’intervengo del celebre biologo Edoardo Boncinelli. Non è tanto una lettura puntuale del II canto dell’Inferno, ma uno sguardo complessivo sull’opera di Dante e sulla contraddizione, secondo lo scienziato evidente, tra la potenza poetica di Dante nella rappresentazione del mondo umano e l’elementarità delle concezioni astronomiche, chimiche, fisiche, biologiche del poeta e del suo tempo ancora dominato dal dogmatismo semplificatorio di Aristotele. (S.L.L.)
Edoardo Boncinelli
Alle porte dell' inferno Dante volta le spalle al mondo
Ma il suo universo, così umano perché l' uomo vi sta ancora al centro, presto sarà ribaltato dalla scienza

«Lo giorno se n'andava e l'aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / dalle fatiche loro». Con questa splendida immagine Dante si congeda dal nostro mondo e dalla «selva erronea di questa vita», e inizia il suo lungo cammino, l'«alto passo». Il suo sarà un viaggio nella Commedia Umana, anche se i luoghi, i tormenti e gli splendori sono quelli di una superba costruzione di fantasia, sorretta da una grande dottrina e illuminata da una fede veramente totalizzante. È un viaggio della mente e del cuore nelle diverse province «delli vizi umani e del valore», una compilazione e una visitazione dello specificamente umano, privato e collettivo, al tempo stesso eterno e storicamente individuato, che non ha l'uguale per grandezza e per forza espressiva.
Non può non colpire il contrasto esistente fra la grandiosità della costruzione poetica di Dante che raggiunge vertici di validità universale e la povertà delle conoscenze e della visione del mondo propria del suo tempo. L'universo si presenta veramente minuscolo e l' uomo vi si sente ancora al centro, privilegiato fra i viventi, sparso su un territorio di cui non considera neppure l' estensione e di cui ignora i confini, signore del globo, un pianeta piantato in mezzo al tutto, con i pianeti e le stelle che gli girano intorno. Non erano ancora arrivati Copernico, Darwin, Freud, Marx, Einstein o Hubble. Tutto sembrava chiaro e relativamente semplice, senza spessore e senza doppi fondi immanenti: il cielo, la terra, le stelle, gli animali, le piante, i moti dell' anima e le operazioni della mente, lucida e consapevole, quando non cade preda delle passioni. La vastità delle osservazioni e delle «spiegazioni» offerte da Aristotele e dai suoi commentatori e continuatori conferisce un carattere di monoliticità a questa visione. Il mondo inanimato, in sostanza, ma anche buona parte di quello animato, non pongono problemi. Tutto è lì davanti, sostanzialmente in mostra, e per nulla diverso da quello che sembra.
Noi sappiamo che la gran parte dei processi materiali, compresi quelli biologici, possono essere spiegati soltanto guardando «dentro» le cose, che contengono una congerie di cose più piccole, in uno sforzo di comprendere e «spiegare il visibile complesso in termini dell' invisibile semplice» per citare una frase del francese Perrin. A quel tempo invece la spiegazione delle cose si trova «accanto» alle cose, in una sostanziale duplicazione della realtà, sdoppiata in due piani paralleli: un piano degli eventi e un piano delle spiegazioni degli eventi, non significativamente dissimile dal primo, in un quadro pressoché identico a quello dei Greci anche se «ben mille ed ottocento / anni varcàr poi che spariro».
È chiaro che si tratta di una visione del mondo che sta celebrando i suoi ultimi fasti e che presto crollerà sotto i colpi della riflessione e della sperimentazione, ma è altresì comprensibile che molti oggi rimpiangano più o meno apertamente quel mondo, in cui tutto è chiaro e semplice, non c' è troppo da sapere ed è sufficiente credere in un numero limitato di affermazioni, sulla materia, sulla mente e sullo spirito.
Sono passati sette secoli e di tutto questo è rimasto ben poco, anche se sono sicuro che in cuor loro molte persone il mondo se lo immaginano più o meno come lo ha rappresentato Dante, con il suo al di qua e il suo al di là. Questa è la forza della poesia e della rappresentazione poetica. Su uno sfondo naturale povero e intrinsecamente poco problematico si muovono gli esseri umani, con i loro contrasti e i loro drammi, figure a tutto tondo, spesso titaniche, che si agitano contro fondali da opera pastorale. Si ha qui l' assoluta centralità dell'umano: umano è il problema, umane le soluzioni, gli errori ed eventualmente i rimedi in una visione esaltata e piena di chiaroscuri tipica di un atteggiamento adolescenziale. Adolescenziale è la compresenza di grande modestia e smisurato orgoglio, incertezza e ostinazione, capacità di porsi al centro, un centro spesso dolente, dell'universo e del suo dramma. Questi tratti della personalità poetica dantesca, già chiaramente presenti nella Vita Nova riaffiorano nell'impostazione del poema maggiore. Dante sta per partire per un viaggio d'iniziazione che ha dell'adolescenza tanto l'esigenza di un'educazione sentimentale quanto quella di una «risistemazione» mentale delle cose della vita e della storia, rimesse a posto secondo i criteri di una giustizia superiore, inevitabilmente e protervamente soggettiva. È un tributo pagato ai giusti e una vendetta postuma consumata ai danni di peccatori e ipocriti, magari osannati e premiati in vita, per non parlare di quegli sciagurati, gli ignavi, «che mai non fur vivi».
In questa selva dell'umano operano essenzialmente tre forze, espressione di altrettante istanze: le passioni, la ragione e la fede, impersonate rispettivamente dalle tre fiere, da Virgilio e da Beatrice e le altre due «donne benedette». La ragione, si noti, è una, rappresentata da un solo personaggio, contro la molteplicità dei simboli delle altre istanze: una strozzatura, una via di congiunzione, si direbbe innaturale, fra il mondo terreno e quello celeste, un varco, un tramite, l'espressione di una hybris conoscitiva e normativa, ciò che ci situa a mezza strada fra gli animali e gli angeli, ma che ci fa anche capire che non siamo né questi né quelli; piuttosto un'anomalia, uno sgarro, un virus nel computer del mondo. Ma anche gli unici che lo possono notare.
Il ricorso ai simboli e al linguaggio dell'allegoria sembra quasi inevitabile in un mondo che vive su due piani. E di simboli nel poema ce ne sono tanti e tanto se ne è discusso. Assente al tempo degli classici, dove il simbolo non allude che a se stesso, il dibattito sul valore dell'allegoria nell'economia di un'opera poetica si inaugura più o meno ai tempi di Dante e si tratta di un esordio fragoroso, data la massiccia presenza delle simbologie nella sua opera. Considerata da un certo punto di vista la presenza di tutta questa simbologia non può che risultare fastidiosa e ingombrante: sul vero significato della selva e del monte, delle tre fiere, del Veltro, delle donne benedette e via discorrendo si sono versati fiumi di inchiostro.
Tutto ciò appartiene però più al farsi della poesia che al suo godimento. La Divina Commedia può essere letta infatti in modo del tutto indipendente dal significato simbolico di molte sue figure. Le immagini e le espressioni alate vivono di una loro vita autonoma e ci catturano per la loro forma e il loro contenuto manifesto. Ma c' è nella mente di Dante e nel suo cuore un doppio piano di realtà, dal quale non si può prescindere se si vuole intendere la sua poesia e la sua anima. Dietro il contenuto immediato ci sono i simboli la cui concezione ed elaborazione costituisce una sorta di disciplina interna per il poeta, un modo sostanzialmente equivalente allo studio «matto e disperatissimo» del giovane Leopardi, per accogliere non impreparato l' ispirazione che, come la fortuna, viene quando viene, ma ha bisogno di un terreno lavorato. E anche un modo per essere poeta e al tempo stesso sentirsi degno di un' attività edificante, un morale negotium come lui stesso definisce nell' epistola a Cangrande la redazione dell' opera.

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