28.7.12

Italia. Una borghesia rapace senza più argini (di Alberto Burgio)

Il brano che segue è la parte finale dell’articolo La violenza del dominante in “Alfabeta 2” N.3 dell’ottobre 2010. Conclude un’analisi delle scelte di Marchionne e della Fiat nelle fabbriche e nella politica. A me pare una corretta ed efficacissima rappresentazione dell’illegalismo e del sovversivismo della borghesia italiana, e non di quella bottegaia e padroncina che amava alla follia Berlusconi, ma di quella nata bene, di tradizione e di buoni studi. Burgio denuncia anche la distruzione degli argini al suo dilagare, che definisce una vera “tragedia”. In quella tragedia ci sono dei responsabili, i cui nomi sono facili da indicare. E’ necessario cominciare a ricordarli, tutte le volte che capita: Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino e via di seguito.
La fonte della citazione gramsciana è il settimanale socialista torinese “Il grido del popolo”, anno 1915, il ministro di cui si parla è Guido Carli, a lungo governatore della Banca d’Italia. (S.L.L.)
Guido Carli
L'orizzonte temporale che ispira le scelte degli imprenditori italiani è breve perché essi concepiscono soltanto interessi particulari. Dovrebbero operare come un'elite nazionale, assumersi la responsabilità della direzione sociale. In realtà si pensano e agiscono come semplici affaristi. Un secolo addietro (quando l'Italia non deteneva ancora il record dell'evasione fiscale) Gramsci scriveva che la «coscienza tributaria» della borghesia ruota sempre intorno a un obiettivo: «Gravare la mano su tutti facendo abbassare il livello di vita generale, e lasciare immune la vera ricchezza». Ma Gramsci, si dirà, era una testa calda. Varrà allora la pena di ricordare che vent’anni fa (ancora la signora Marcegaglia non doveva rispondere di evasione fiscale e costituzione di fondi neri all'estero) un ministro definì gli imprenditori italiani «una classe dirigente mediocre e dagli appetiti animaleschi». Non era un bolscevico ma conosceva bene i suoi polli, visto che, dopo avere a lungo governato la Banca d'Italia, era stato anche presidente della Confindustria.
Si dovrebbe dire molto altro al riguardo, cominciando dal cambiamento strutturale della borghesia e della classe dirigente italiana per effetto della penetrazione di enormi capitali mafiosi (di mafia, 'ndrangheta e camorra) nei gangli vitali dell'economia nazionale. Non si tratta di devianza né del solo Mezzogiorno. Sono in gioco i nuovi assetti del potere economico, sociale e politico in Italia. Il capitale è potere, indipendentemente dalle fonti dell'accumulazione e dai sistemi di valorizzazione. E dalla composizione materiale dei principali consigli di amministrazione un paese trae anche indirizzi e logiche della propria «civiltà».
Ma il discorso sarebbe lungo e non c'è spazio se non per un'ultima considerazione. Perché le cose stanno cosi? Tra le molte ragioni ne ricordiamo una sola. Un fiume senz'argini straripa. La rapacità della classe dirigente italiota non è una novità, ma una novità relativa (data da una ventina d'anni) è il suo strapotere, la sua egemonia perversa e incontrastata. Una delle sue cause principali è il deperire di quel potente fattore di contrasto che era stato per oltre quarant’anni in questo paese un forte movimento operaio, sostenuto da un grande partito politico di massa. Quando ricordiamo le «belle bandiere» del comunismo italiano non ne ignoriamo limiti ed errori, ma si trattò comunque di uno dei rari tentativi di formare una vera classe dirigente, capace di concepire senza grettezza i propri obiettivi e di agire per il bene comune.
La distruzione di quell'esperienza è stata una tragedia nazionale. La conversione di tanti alle ragioni del capitalismo non ha soltanto stravolto la geografia politica, sociale e ideologica del paese, ne ha anche sfigurato l'antropologia.

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