29.7.12

Marco Aurelio, l'ultimo pagano (Lidia Storoni)

L' abbiamo visto per tanti anni, maestoso e rassicurante, al centro di Piazza del Campidoglio, che fu uno choc osservarlo da vicino, sceso dal piedistallo, quando l' Istituto Nazionale per il Restauro espose la statua di Marco Aurelio nella nuova sede, l' antico Ospizio di S. Michele. Ci pareva di commettere un'irriverenza. Lentamente, siamo entrati in confidenza: indossa un sagum da viaggio, non il paludamentum dell' imperatore; è nell'atto di rivolgere parole di benevolo incoraggiamento ai legionari, ai sudditi dell' impero, ai posteri. L'oro gli traluce a chiazze sul viso, come il riverbero del fuoco: quando tutta la statua ne sarà ricoperta, dice il popolino, canterà la civetta (il ciuffo di peli su la fronte del cavallo) e sarà la fine del mondo.
Marco Aurelio fa parte dell' aneddotica, del frasario popolare, ma non si scompone; ne ha viste tante: la zampa ricurva del cavallo, sotto la quale doveva esserci un piccolo barbaro inginocchiato, è servita persino come forca. Michelangelo lo collocò al centro della mirabile trama a 12 punte (le costellazioni? gli Apostoli?) che disegnò sul pavimento della piazza. Delle migliaia di statue bronzee che esistevano a Roma, quella sola era stata risparmiata dalla zecca papale perché si credeva fosse l' immagine di Costantino, il primo imperatore cristiano; la si teneva davanti al palazzo del Laterano. La nuova collocazione aveva un significato ben preciso: con Costantino, l' impero volta le spalle al Foro e alle sue memorie (porgete l' orecchio, non è Son et Lumière, è la voce di Cicerone che arringa, di Antonio che pronuncia l' elogio di Cesare assassinato); con Costantino, l'impero ripudia il Colosseo insanguinato dai gladiatori, dai criminali esposti alle belve, dai martiri; l'impero guarda ormai al sepolcro di Pietro, sul quale non è ancora compiuto il miracolo della cupola.
Non so se Michelangelo sapesse che non era Costantino ma era Marco Aurelio; forse, ce lo avrebbe messo lo stesso, anzi, a maggior ragione: poiché come frattura e, al tempo stesso, tramite tra il mondo antico (i suoi valori, la sua religiosità) e l'era cristiana Marco Aurelio è ben più significativo di Costantino. Questo non era che un soldataccio brutale e astuto; aveva calcolato quale forza sociale e numerica rappresentassero ormai i cristiani, aveva constatato che le persecuzioni non servivano a disperderli. Ma come pensiero politico, filosofico, religioso, Costantino non significa nulla. Marco Aurelio al contrario è il campione stanco e severo del mondo antico, l'erede d'un patrimonio spirituale al tramonto; ne ha redatto il testamento buttando giù senza ordine pensieri e ricordi, a Roma e al campo, durante le lunghe campagne contro i Sarmati, i Quadi, i Marcomanni che combattè per anni e anni sul Danubio, fino alla sua morte, nel 180 d.C. L'Utet ne propone ora un'edizione che comprende anche le lettere dell'imperatore al suo maestro Frontone - colme d'ammirazione fino ad essere stucchevoli - e i testi legislativi: contributo importantissimo per la conoscenza dell' uomo, per misurare la coerenza tra la dottrina stoica che professava e gli atti di governo (pagg. 919, precedute da note critiche e bibliografiche, con un'Appendice che contiene gli indici, le fonti storiche, epigrafiche e giuridiche, a cura di Guido Cortassa, lire 75.000).
I Pensieri famosi sono un continuo colloquio con se stesso, un monito incessante a non spazientirsi, a non meravigliarsi, a non indignarsi, a non disperare, rivolto al suo io da un uomo costretto a un'esistenza contraria alle sue intime tendenze; è il tentativo di applicare uno schema dottrinario alle circostanze della vita, sperando che quell' armatura di principi costituisca una protezione contro la ferocia e la turpitudine, la bassezza e la stupidità umana ("ogni mattina dire a se stessi: oggi m'imbatterò in un indiscreto, un ingrato, un arrogante, un imbroglione, un invidioso, un egoista..." "Avere un contegno dignitoso senza affettazione... sopportare gli ignoranti e quelli che si fanno un'opinione senza approfondire la questione... adattarsi a tutti..." "tollerare (lo faceva Antonino Pio) quelli che lo criticavano ingiustamente, senza criticarli a sua volta..."): fin qui, è quasi soltanto una questione di pazienza, o di educazione, che è poi la stessa cosa; ma ci sono fastidi più gravi, disagi, sofferenze peggiori che la compagnia dei saccenti, la falsità degli adulatori, il fetore dei sudici.
Ci sono le ferite, le mutilazioni, le malattie, la morte. Muoiono gli uomini in battaglia, i suppliziati nelle carceri, i cristiani nel circo di Lione (nel 177 d.C., un decreto autorizzava l'acquisto di carcerati a 5 aurei ciascuno per farli combattere nell'arena, tra loro o con le belve, in luogo dei gladiatori, che costavano di più): Marco Aurelio accetta ogni cosa con un'impassibilità lievemente compiaciuta, che contrasta con l'accento concitato e fremente degli autori cristiani contemporanei: il non aver valutato la gravità, la portata del cristianesimo, la novità del messaggio, quando già più di cinquant'anni prima Plinio il Giovane, dalla Bitinia, dov'era governatore, scriveva a Traiano denunciando perplesso l'esistenza di queste conventicole di credenti inoffensivi ma irriducibili, denota una sordità, un'insensibilità allarmante da parte d'una coscienza così nobile. Possibile che non gli sia stato riferito l' eroismo della piccola schiava cristiana tra i martiri di Lione? che quella forza sovrumana non lo abbia sorpreso? Anche alla perdita delle persone care, la sposa Faustina, i bambini, il fratello Lucio Vero, e all'imminenza della propria fine Marco Aurelio oppone l'accettazione impassibile dello stoico: tutto passa, tutti muoiono; l'oliva cade dall'albero e non se ne duole. La morte è uno degli aspetti necessari di quell'ordine razionale immanente nell' universo, dal quale tutto dipende, al quale l' uomo saggio consente: la sua fede di stoico gli imponeva di crederlo. Ma da queste pagine emana una desolata chiaroveggenza che contrasta con il credo che tutto è bene. Nelle massime che Marco Aurelio rivolge a se stesso si intuiscono fonti per noi perdute e vi si legge il suo imperativo morale: austerità, abnegazione del singolo alla comunità, tanto più quando ne è il caso. Sono atteggiamenti tipici dell'èlite culturale del suo tempo, derivati dal "miraggio spartano" e dal pensiero greco, più recentemente da scritti teorici Sulla Monarchia, secondo i quali il re è il pastore equo e mite, il timoniere insonne, il giudice inflessibile. Ma queste non sono le pagine d'un politico; i bisogni materiali, le istanze, lo smarrimento delle masse non vi sono neppure intravisti. Rispecchiano piuttosto un ideale etico individuale, non del tutto immune da narcisismo, un umanesimo privato, che comporta controllo delle passioni, disprezzo dei beni terreni, amore del prossimo; quell'ideale colma il vuoto lasciato da valori già tramontati nell' ultimo secolo della Repubblica: amor patrio, impegno civico, dedizione allo Stato.
L'ultimo ideale pagano, l'ultimo esemplare umano proposto alle coscienze prima dei martiri e dei santi è il suo: è un modello orgoglioso e consapevole della propria superiorità. Se ne ritrova l'eco in quei momenti in cui un popolo pretende di porsi a modello al mondo. "Si parva licet", un condensato di questo codice morale è contenuto nel poemetto di Kipling noto a tutti gli scolari di lingua inglese, If: se vorrà essere un vero uomo - vale a dire un gentleman britannico che sa di doversi distinguere su popoli inferiori - il destinatario della predica deve astenersi dallo scoraggiamento, dall' ira, dalla passione, dalla vanagloria: esattamente come Marco Aurelio. L'analogia è evidente.
Non lo è invece - se non per una filiazione culturale - quella con il "Caffettiere Filosofo" di Gioachino Belli, che sfuggì a Giorgio Vigolo, così attento nell'individuare il minimo filone letterario nei versi dialettali del grande poeta: "Molti granelli d' incenso sullo stesso altare" scrive l'imperatore "uno cade prima, uno dopo; non c'è alcuna differenza". E il Belli: "L'ommini de sto monno sò l'istesso / Che vaghi de caffè ner macinino: / Ch'uno prima, uno doppo e un antro appresso / Tutti quanti però vanno a un destino...".

“la Repubblica” 23 agosto 1985

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