16.7.12

Nerone teppista divino (Lidia Storoni)

Da un vecchio ritaglio recupero gran parte di un bell'articolo della Storoni, studiosa e divulgatrice di gran valore di cose antiche. Concentro l'attenzione su due punti: la doppiezza di Nerone e un progetto di deificazione che non può essere ridotto a pura follia. (S.L.L.)

Nessun personaggio storico è famoso, o famigerato, a Roma come Nerone. Gli si attribuiscono misure brutali ma risolutive: c'è chi dice che facesse tagliar la testa a tutti, a sessant'anni; per risolvere i problemi della capitale, la dette alle fiamme (e Dio sa se in certi momenti non lo farebbe chiunque). E' una specie di "Baffone" retrospettivo: vado al mercato di Campo de' Fiori, un vecchio rovescia una cesta di mele e la fruttivendola gli grida dietro: "Viva la faccia de Nerone, che li vecchi l' ammazzava da piccoli!".
Accendo la Tv e vedo Alberto Sordi in parrucca bionda che medita il matricidio, tiepidamente dissuaso da De Sica in veste di Seneca. E c'è chi cita ancora il Nerone memorabile di Petrolini che, agli applausi della plebe, diceva a Tigellino: "Lo vedi com' è er popolo?".
A tanta notorietà non hanno contribuito tanto Tacito e Svetonio quanto il Quo Vadis più volte filmato e la crocifissione di San Pietro nel Circo neroniano. Oppure - non è impossibile - è giunto fino a noi, attraverso una tradizione orale di diciannove secoli (in fin dei conti, una sessantina di generazioni) il consenso sbigottito della plebe al principe istrione, pacchiano, megalomane. E forse, nel giovane che fu capace di uccidere la madre e il maestro, si riconoscono, come in un "transfert", i contestatori e terroristi potenziali, che magari si contentano di passare con il rosso e urlare parolacce.
Il ritratto di Nerone sulle monete è quello d'un teppista, un bullo protervo, la fronte bassa, i riccioli sul collo taurino: tratti che denunciano gli eccessi sessuali, il diniego smaccato della tradizione e dell' autorità dei notabili. Se vediamo in lui il "tiranno" tipologico - sospettoso, avido, lussurioso, crudele -, quasi una maschera felliniana, ciò si deve alle fonti ostili, che furono duplici e parimenti autorevoli: i conservatori del Senato, esautorati, umiliati e infine decimati, e i cristiani, che in Nerone riconobbero l'Anticristo; e non solo per i martiri arsi a fuoco lento nell'attuale piazza San Pietro, sotto la falsa accusa d'aver appiccato l'incendio all'Urbe, ma anche per certe sue aspirazioni messianiche, ispirate a modelli asiatici e alle monarchie ellenistiche.
Queste aspirazioni trapelano dalle iscrizioni, dai ritratti, dalle monete: la chiusura del Tempio di Giano, simbolo di pace nell'impero, di cui si vanta, è dovuta "alla pace stabilita sulla terra e sui mari"; sulle monete coniate ad Atene Nerone è invocato come Nuovo Sole, Zeus liberatore; su quelle egiziane, infine, è chiamato addirittura Salvatore del Mondo: adulazioni smodate, ma anche messaggi ideologici ispirati dalla Corte.
Dopo la sua morte, avvenuta nel 68 d.C., gli oracoli sibillini ne annunciarono il ritorno dall' Eufrate, alla testa d'un'armata innumerevole, per infliggere all' Urbe fastosa e corrotta il giusto castigo. Già nel 69, appena salito al trono Vespasiano, un impostore sbarcato in Siria si spacciò per Nerone; un altro fece la stessa cosa nell' 80, e un terzo nell' 89: non si riusciva a credere che il giovane sovrano, salito al trono per gli intrighi della madre a soli diciassette anni nel 54 d.C., fosse stato veramente costretto al suicidio dalla rivolta delle legioni in Gallia, in Spagna, in Africa e dall' opposizione tenace dei senatori, che temevano il trasferimento della capitale in Egitto. Lo aveva fatto Antonio e non si cessò mai di temerlo, fino a che lo fece Costantino, fondando Costantinopoli. Assassino, degenerato, Nerone emerge dal passato come in un film di De Mille, il manto di porpora illuminato dai bagliori dell' incendio di Roma, attore, cantante prima che statista, atteggiato ad Apollo Citaredo.
Nel suo discorso inaugurale in Senato, probabilmente scritto da Seneca, affermò d' essere stato "eletto"; ma non dice da chi, il che sottintende "dagli dèi", ai quali era "piaciuto" nominarlo loro vicereggente in terra: e ciò significa arbitro di vita e di morte dei sudditi. L'aver costruito una dimora immensa e fastosa, la Domus Aurea, vera residenza sacra, che conteneva nell'atrio la sua statua colossale dorata e, nella sala delle udienze, una cupola roteante a guisa di Planetario che simulava il firmamento, degna cornice del Cosmocrator; l'aver coperto il suo teatro con un tendone di seta dov'era dipinto il suo ritratto sul carro del Sole, appaiono forme aberranti di narcisismo; ma la critica odierna, pur non riuscendo a riabilitare l'imperatore, cerca di individuare la portata simbolica di queste sue stranezze, le loro ragioni politiche e ideologiche, nonché i fattori culturali del messaggio di Nerone, esplicitamente negatore della tradizione romana.
Lo ha fatto con grande rigore Eugen Cizek in un volume edito da Garzanti (La Roma di Nerone, traduzione di Mario Bonini). Nella sua ricostruzione scrupolosa delle correnti culturali che influirono su Nerone, nonché su quelle ambientali, psichiche ed esistenziali, Cizek si sofferma su alcuni fattori fondamentali: l'esempio delle monarchie ellenistiche e, soprattutto, dell' Egitto; i contatti con la Persia; l'assenso di Seneca; e, soprattutto, l'adozione, da parte di Nerone, del filone politico che gli veniva da Marco Antonio, nonno di suo nonno Germanico, anziché di quello di Augusto (che era, a sua volta, il nonno materno di sua nonna Agrippina Maggiore).
L'albero genealogico, inviso ai lettori di biografie, in questo caso è essenziale, perché l'eredità ideologica, determinante per i romani, nel caso di Nerone era duplice e inconciliabile. Dei rivali famosi che si erano affrontati negli ultimi due secoli per la supremazia su Roma, Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio, gli ultimi due ebbero per i contemporanei, come hanno per noi, la fisionomia più espressiva di forme politiche opposte.
Ottaviano rappresenta il retaggio repubblicano, gli interessi delle classi medie e degli Italici, il dominio di Roma; ad onta della deificazione della sua persona, che si andava affermando spontaneamente dovunque, mostrò di respingerla, ostentò rispetto per le istituzioni e accettò solo poteri costituzionali, deferiti dal Senato. Antonio, al contrario, adottò forme teocratiche orientali, il culto della personalità e la sovranità per diritto divino sull' universo, dove Roma era una città tra le altre.
L'autore insiste troppo sulla portata innovatrice del "neronismo", come se fosse una concezione rivoluzionaria, senza precedenti. Le tendenze verso l'assolutismo teocratico, respinte dal conservatore Tiberio, erano già evidenti in Germanico, morto troppo giovane per manifestarle, e soprattutto in suo figlio Caligola; Nerone rappresenta dunque il vertice vistoso d'un iceberg di vaste proporzioni.
Più che d'una sua scelta dottrinaria e d'un calcolo politico, si può parlare della degenerazione del potere e della manifestazione clamorosa di tendenze ineluttabili, nutrite dell'impatto culturale greco, asiatico ed egizio, filtrate attraverso l'apporto sotterraneo degli immigrati e dell'esercito, impegnato per anni sul fronte asiatico.
Vi influiva soprattutto il modello ossessivo del giovane condottiero, Alessandro Magno. Era, inoltre, una necessità storica in un impero così vasto. Né mancavano tendenze soggiacenti nello spirito romano: Romolo era asceso al cielo col nome di Quirino; il trionfatore con il viso dipinto di rosso e la corona di quercia sul capo riproduceva l' aspetto di Giove; Cicerone largì senza economia il titolo "divino" a Pompeo, a Cesare, a Ottaviano giovinetto; Orazio e Virgilio lo chiamarono dio e del resto il Senato ordinò che nei banchetti si libasse al suo Genio e che il suo nome fosse incluso nel Carmen Saliare, anche se, come osserva Antonio La Penna nel suo Orazio e l' ideologia del principato, lo spirito romano, impregnato di senso giuridico, prevedeva che salissero al cielo i benemeriti della patria (come scrisse Ennio di Scipione Africano: “a loro si spalanca la porta del cielo”) e non si incarnasse nel sovrano il dio, come dicevano in Egitto.
La nota che più sorprenderà i cultori del Seneca precettore inascoltato, che si tagliò le vene pronunciando ultime parole famose, è la denuncia fatta da Cizek (ma già formulata da Grimal e da Fears) del suo assenso al dispotismo mistico del principe. Nel suo trattato De clementia, base dei panegirici futuri, risuonano echi dei trattati ellenistici sul buon governo e degli elogi egiziani: Seneca era cosciente che la patria non era più la Città ma il mondo e che bisognava adeguare i valori etici e politici alla nuova realtà: virtus, pietas, austeritas non bastavano più.
A un sovrano vicereggente degli dèi si concede tutto, purché sia clemente. Ma la clemenza è l'atteggiamento grazioso e arbitrario di chi è al di sopra di tutti e non risponde delle proprie azioni alla legge; alla quale, dice il codice fino a Giustiniano, sottostanno anche i re.

“La Repubblica”12 gennaio 1985 

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