Il primo Campionato Europeo di calcio, quello del 1960, lo vinse la nazionale di un paese che non c’è più, l’Unione Sovietica, in uno dei momenti più acuti della guerra fredda. L’Urss, vista da Occidente, appariva insieme mito ed incubo. Rispetto al tempo di Stalin gli elementi burocratico-autoritari si erano allentati, ma non erano stati eliminati. La compressione della classe operaia ad opera della burocrazia di partito appariva evidente in Urss e ancor di più nei paesi del Patto di Varsavia (le ribellioni del 56 in Polonia e Ungheria erano state dapprincipio rivolte operaie). E tuttavia il collettivismo celebrava i suoi fasti nello spazio, nelle scienza mediche e perfino nello sport e non mancava di attrattive non solo per i paesi in via di sviluppo, ma anche per quelli dell’Europa Occidentale. A ricostruire nei suoi fondamenti, oggettivi e ideologici, il collettivismo in campo sportivo è dedicato l’articolo di Luigi Cavallaro, magistrato ed economista, oltre che appassionato di calcio, su un “alias” del mese scorso, in apertura del campionato, che la Spagna poi ha vinto umiliando in finale la Nazionale italiana. (S.L.L.)
Il mito sovietico dello sport collettivistico
di Luigi Cavallaro
L’albo d’oro degli Europei di calcio esordisce così, con un nome al quale non corrisponde più alcuna realtà geograficamente riscontrabile. Quasi una metafora dell’assetto dei rapporti di produzione che quel nome evocava e che adesso, al pari del nome, è destinato ad una presenza puramente spettrale.
Era il 1960, e da almeno quattro anni – dall’«indimenticabile 1956» – il mondo sperimentava una nuova recrudescenza della guerra fredda fra Est e Ovest, da ultimo a causa della rivoluzione cubana di Fidel Castro e Che Guevara e della decisione di Chrušcëv di installare a Cuba una base militare sovietica.
Ma forti tensioni attraversavano i due blocchi anche al loro interno: a Est, non si era ancora sopita la conflittualità che aveva portato la Jugoslavia di Tito a fuoriuscire dal campo socialista e la Polonia e l’Ungheria a ribellarsi contro i regimi filosovietici; a Ovest, era la Francia di De Gaulle, tornato al potere nel 1958, a mostrarsi sempre più insofferente nei confronti del regime di «protettorato» entro il quale gli americani costringevano di fatto l’Europa occidentale ad offrire al colto e all’inclita robusti motivi per diffidare dell’ingombrante presenza dell’«amico americano».
Motivi che peraltro andavano a rafforzare i primi tentativi dei «non allineati» di affrancarsi dall’egemonia dei due blocchi. Astraendo da questo contesto, non si capirebbe nulla delle peculiarità di quella prima edizione dell’Europeo di calcio.
Che infatti vide il boicottaggio delle principali potenze calcistiche occidentali (Inghilterra, Scozia, Germania Ovest, Italia), la presenza massiccia di squadre dell’Est (Urss, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania), la convinta partecipazione di compagini dichiaratamente «neutrali» o comunque difficilmente classificabili (Norvegia, Danimarca, Jugoslavia, Spagna, Portogallo) e la celebrazione della sua fase finale giusto in Francia: la quale, manco a farlo apposta, era la nazione che in Henri Delaunay (primo segretario generale dell’Uefa) aveva espresso il più tenace assertore dell’idea di una competizione calcistica continentale.
Fu un’edizione strana. Quel misterioso e per lo più invisibile legame che avvince il calcio e la politica e che fa sì che l’uno sia niente più che una narrazione metaforica dell’altra tornò brutalmente a manifestarsi in occasione del categorico divieto che il «generalissimo» Franco oppose all’incontro tra la Spagna e l’Urss, che avrebbero dovuto disputarsi l’accesso alle semifinali: praticamente, una riedizione a rovescio dell’antico niet con cui l’«Internazionale Sportiva Rossa» aveva per molti anni risposto alla richiesta delle squadre di calcio sovietiche di sfidare le loro omologhe «borghesi» (perché – si diceva – gli operai dovevano misurarsi «solo con i loro simili»), che rese per sempre impossibile la sfida tra Alfrédo Di Stéfano e Lev Jašin, ossia tra il più forte attaccante e il più forte portiere di quegli anni.
Alla fase finale a quattro (secondo una formula che sarebbe durata fino al 1976) accedettero così l’Urss a tavolino, la Francia, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Vinse l’Urss, battendo 2-1 in finale la Jugoslavia e vendicando così l’umiliante sconfitta subita otto anni prima alle Olimpiadi di Helsinki: «umiliante» se non altro per la pubblica degradazione che l’intera rappresentativa sovietica aveva dovuto subire di ritorno in patria per non aver saputo mostrare la «superiorità socialista» rispetto ai «rinnegati» titoisti.
Sarebbe tuttavia erroneo ascrivere la vittoria sovietica soltanto all’assenza di validi competitors: in quegli anni, infatti, l’Urss era all’avanguardia nelle sperimentazioni tattiche seguite all’universalizzazione del WM e della marcatura a uomo. Il suo allenatore, Gavril Kacalin, aveva militato come calciatore nella Dinamo Mosca durante i mitici anni in cui Boris Arkadev aveva provato con successo a infondere lo spirito russo nell’invenzione tattica di Herbert Chapman, esortando i suoi attaccanti a scambiarsi frequentemente le posizioni per sfuggire alla marcatura avversaria, spingendo uno dei due mediani arretrati a svariare maggiormente in posizione offensiva e facendo scalare gradualmente l’altro a copertura degli altri tre difensori.
Per di più, il gioco prediletto dai sovietici – una teoria infinita di passaggi ravvicinati, che insieme alle sovrapposizioni delle linee e ai movimenti degli attaccanti su tutto il fronte offensivo ubriacava le difese avversarie – aveva dato prova di poter mettere in crisi perfino le fortissime squadre inglesi: già nel 1945, in una tournée in Inghilterra, la Dinamo Mosca aveva costretto al pari il Chelsea e battuto l’Arsenal, suscitando la preoccupata ammirazione dei suoi avversari.
Insomma, anche nel calcio l’Urss sembrava poter costituire «il laboratorio della vita», come aveva pronosticato Keynes a metà degli anni ’20. Sul rettangolo verde non meno che nei rapporti di produzione, gli elementi costitutivi delle relazioni vitali fino a quel momento consolidate venivano febbrilmente rimescolati, esplodendo in nuove combinazioni. Sebbene nel primo campionato europeo l’Urss giocasse ancora con il W M, sarebbe stato lo stesso Kacalin – certamente memore degli insegnamenti tattici di Arkadev – a guidarla in breve verso l’adozione della difesa a quattro, in uno schieramento che richiamava il 4-2-4 sfoggiato dal leggendario Brasile nel Campionato del mondo del 1958. E di lì a poco Viktor Maslov, allenatore della Dinamo Kiev tra il 1964 e il 1970, avrebbe spinto fino in fondo l’eredità del «caos organizzato» di Arkadev, irrobustendo con l’arretramento delle due ali l’esile mediana del 4-2-4, introducendo il pressing e passando organicamente alla difesa a zona.
Ma soprattutto, anche nel calcio s’imponevano sempre più i principi della pianificazione collettivistica. Già nel ’45 non pochi osservatori inglesi avevano rilevato come il gioco della Dinamo Mosca fosse frutto della rigorosa esecuzione di un «piano», e proprio in occasione della vittoria contro l’Arsenal Mihail Jakušin (che dal 1944 aveva sostituito Arkad’ev sulla panchina dei moscoviti, recependone in toto gli insegnamenti) aveva spiegato a chiare lettere che «il gioco collettivo è il principio guida del calcio sovietico». Giungendo perfino a ipotizzare che un fuoriclasse come l’attaccante inglese Stanley Matthews potesse non trovar posto nella sua squadra: «Le sue doti individuali sono elevate, ma siccome noi mettiamo al primo posto l’efficienza del collettivo, saremmo pronti a fare a meno di lui se il suo modo di giocare pregiudicasse il lavoro del gruppo».
Sembrava (e sembra ancora) eresia,ma non lo era. Era semmai la presa d’atto che, essendo il calcio un gioco collettivo e necessitando dunque di una qualche forma di organizzazione, non si poteva sfuggire all’alternativa: o si organizzava la squadra in modo che il fuoriclasse si integrasse armonicamente nel collettivo, oppure si sarebbe reso il collettivo una «variabile dipendente» dell’estro del fuoriclasse. O il singolo al servizio del gruppo o il gruppo al servizio del singolo: non c’era alcuna «terza via», e non c’è ancora.
Ernst Nolte ha suggerito che per tutto il Novecento il comunismo avrebbe rappresentato lo specchio e lo spauracchio dell’Occidente, che tanto lo avrebbe temuto sul piano ideologico quanto lo avrebbe imitato sul piano degli assetti di potere. Indipendentemente dalla questione della validità della sua analisi sul piano propriamente storico-economico (ma le massicce dosi di pianificazione e spesa pubblica all’insegna delle quali si compirono i «miracoli economici» del breve XX secolo rappresentano certo un corposo indizio al riguardo), possiamo trovarne nel calcio una significativa riprova.
Nonostante una violenta opposizione ideologica, che dura tuttora, dal secondo dopoguerra in poi il calcio «collettivistico» si diffuse infatti anche a ovest della «cortina di ferro», per lo più come risposta «passiva» alle inefficienze del WM e di quei suoi aggiustamenti ad hoc che furono il catenaccio e la zona mista.
Nei primi anni ’50 fu il Tottenham guidato da Arthur Rowe, con Alf Ramsey terzino sinistro, a sperimentare tra i primi un sistema di gioco fatto di passaggi brevi palla a terra, con i terzini che si sovrapponevano sulle ali e tutti i calciatori a muoversi in avanti a formare una sorta di «onda» che procedeva per triangolazioni ravvicinate e veloci. E sul finire del decennio Vic Buckingham, già mezzala del Tottenham al tempo di Rowe, esportò quel modo di giocare in terra d’Olanda, succedendo a Jack Reynolds sulla panchina dell’Ajax, dove giocava in attacco un lungagnone di nome Rinus Michels. Nel frattempo, in Unione Sovietica, un talentuoso attaccante della Dinamo Kiev d’una decina d’anni più giovane di Michels, tale Valerij Lobanovskij, sperimentava sulla propria pelle, con l’allontanamento dalla squadra, fino a che punto la sincronia dei movimenti collettivi imposta dall’organizzazione scientifica del gioco voluta da Maslov fosse incompatibile con le improvvisazioni individualistiche di un virtuoso come lui, che pretendeva di tener troppo il pallone.
Nel 1988, quei due giovanotti di allora, divenuti nel frattempo allenatori dell’Olanda e dell’Urss, si sarebbero scontrati in una famosa finale di un altro Europeo, dopo aver entrambi implementato l’autocoscienza del collettivismo calcistico fino alla dimensione «totale» costituita dalla capacità di allargare e restringere lo spazio di gioco attraverso movimenti sincronici delle linee di difesa, di centrocampo e d’attacco, e contemporaneamente di innescare continue sovrapposizioni delle linee, con i difensori che attaccavano mentre i centrocampisti e gli attaccanti tornavano a difendere. Fu quello l’ultimo Europeo al quale risultò iscritta una squadra denominata «Unione Sovietica». Tre anni più tardi, Igor Šalimov e Igor Kolyvanov, due giovani calciatori di quella nazionale ormai prossima a dissolversi in una comunità di stati indipendenti, approdavano in Italia, a Foggia, in una squadra allenata da un ceco di nome Zdenek Zeman.
Ma questa è un’altra storia – o forse è ancora la stessa.
"alias", 9 giugno 2012
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