17.7.12

Piccante americano (di Deborah Madison, Slow Food)

Un peperoncino della varietà Chimayo
“Scritto e mangiato” è uno dei supplementi del quotidiano comunista “il manifesto”. In quello del marzo 2005, l’articolo di una signora americana dello Slow Food ci commuove parlando del New Mexico, del mercato di Santa Fe, degli agricoltori che lo popolano, dei loro straordinari peperoncini. Un momento di vita americana, raccontato con vivacità, con amore della vita e delle persone. Un pezzo che toglie tante curiosità, ma che molte di più ne stimola, pieno di colore e di aroma. (S.L.L.)
Santa Fe
Negli Stati Uniti i mercati degli agricoltori sono gli unici luoghi dove si possono trovare cibi tradizionali, prodotti e venduti in un modo che indica una loro conoscenza profonda. Insieme ai pochi ristoranti che puntano davvero sui prodotti regionali, sono i mercati degli agricoltori a darci le indicazioni più sicure sui prodotti di ciascuna regione di questo grande paese.
Nel mercato di Madison nel Wisconsin troverete le noci di Hickory appena raccolte ma non le mandorle; a Birmingham in Alabama scoprirete che il gombo è accuratamente diviso in base alla dimensione, a seconda che lo si voglia friggere, stufare o conservare sottaceto.
Le dolci uve muscadine, grandi come prugne selvatiche, si trovano nel Sud ma non nel Sud-ovest; i fragranti limoni Meyer arricchiscono solo i mercati della California e via dicendo.
Anche se i peperoncini si trovano quasi ovunque, il mercato di Santa Fe in New Mexico è l’unico posto dove si possono comprare i peperoncini autoctoni. Come tutti questi luoghi, è nato per iniziativa di alcuni agricoltori, qui in genere di origine ispanica, che vendevano qualche carota, cipolle, piselli e poco altro, e magari un barattolo di prugne o di peperoncini secchi. Oggi, nel pieno dell’estate, gli agricoltori che vendono i loro prodotti sono oltre un centinaio, tutti del New Mexico settentrionale.
Santa Fe, una delle città più vecchie degli Stati Uniti, si trova alla confluenza di rotte commerciali e di culture diverse. Qui convergono l’Old Santa Fe Trail, l’Old Pecos Trail e il Camino Real, sicché da molto tempo la storia culinaria della regione è fatta di una mescolanza di piante, semi e gusti. La cultura alimentare delle popolazioni indigene, gli Indiani dei pueblos che vivono ancora lungo il Rio Grande, si basava sulle piante e sulla selvaggina locali; essi però commerciavano con gli Indiani delle pianure a est e con altre tribù a sud, in Messico. È senz’altro possibile che i peperoncini fossero uno dei prodotti che venivano scambiati prima dell’arrivo degli spagnoli, ma generalmente si attribuisce al conquistador Don Juan de Oñate il merito di aver portato il peperoncino dal Messico nel 1548.
Non credo che nessuno possa dire con certezza come questo prodotto, il nostro cibo sentimentalmente più importante, sia giunto in New Mexico, ma al pari dei cibi spagnoli arrivati con i conquistadores – ceci, fave, piselli, latte, formaggio e carne di capra e di mucca, albicocche, pesche, prugne – fu incorporato nella dieta indigena.
Al mercato di Santa Fe, in primavera e di nuovo in autunno, le bancarelle sono colme di sacchi di ceci, piselli, fagioli di varie qualità, fave e marmellate di ciliege selvatiche, prugne e albicocche. Se domandate a un agricoltore che genere di ciliegia o erba vende, vi risponderà “una ciliegia spagnola”, “un basilico spagnolo”.
È rinata la produzione di formaggio di capra e sul nostro mercato si può trovare anche carne, compresa quella di agnello della varietà Churro, altro prodotto importato dalla Spagna. Le varietà autoctone di meloni, angurie e cereali, con i peperoncini ed erbe selvatiche sono tuttora raccolte dagli agricoltori ispanici più vecchi. I più giovani invece, di origine anglosassone, coltivano una quantità di verdure da sementi europee: il Pain de Sucre o la cicoria Biondissima Trieste, le rape di Chioggia, i meloni di Cavaillon, la melanzana Violetta di Firenze…
Ma il prodotto che spicca più di ogni altro, in New Mexico, è il peperoncino. Nel sud gli ibridi selezionati all’università crescono in campi che si estendono per centinaia e a volte migliaia di ettari, e sono esportati in tutto il paese e in Europa. Qui nel nord, invece, coltiviamo quello che è definito il peperoncino “autoctono”, anche se non è realmente nato in questa regione ma vi è presente da centinaia di anni e i suoi semi sono stati tramandati da una generazione all’altra. I peperoncini spesso prendono il nome dal luogo in cui crescono: Espanola, Velarde, Dixon, Chimayo. In sostanza sono la stessa pianta, ma fattori quali la disponibilità di acqua e la sabbiosità del terreno determinano sottili differenze di aroma e intensità. Di solito sono coltivati in piccoli appezzamenti e non superano i confini della comunità. Diversamente dai grandi ibridi carnosi del New Mexico meridionale sono lunghi più o meno una dozzina di centimetri, sono poco carnosi e quasi sempre contorti: per questo non sono adatti a essere farciti e sono difficili da arrostire.
Quando a settembre arrivano sul mercato, c’è sempre una grande animazione. I clienti di solito sanno se li vogliono molto piccanti, piccanti o dolci, e sono divisi in base all’intensità. Una volta acquistati, li si porta da uno degli agricoltori muniti dell’occorrente per arrostirli, vale a dire una gabbia di fil di ferro montata su un fornello a gas. I peperoncini sono infilati nella gabbia e girati lentamente sul fuoco finché la pelle è annerita, processo che riempie l’aria di un aroma che rende tutti felici. Una volta arrostiti a sufficienza, si apre uno sportellino sul fondo della gabbia e i peperoncini sono infilati in un sacchetto di plastica. Quando arrivate a casa, il vapore li ha cotti tanto che le bucce vengono via da sole. Di solito, dopo aver tolto la buccia, sono messi nel congelatore per essere consumati durante l’inverno. Prima che fossero inventati i congelatori, i peperoncini freschi erano seppelliti in un terreno sabbioso e poi prelevati e arrostiti. Naturalmente, non bisogna dimenticare di prenderne qualcuno ancora caldo, metterlo su una tortilla e sbriciolarci sopra il caprino fresco comprato al mercato un’ora prima: si ottiene così una deliziosa quesadilla.
Un altro modo di utilizzare il peperoncino è lasciarlo sulla pianta finché diventa rosso; di solito in questo periodo l’aria di montagna è abbastanza fredda di notte da rendere i frutti molto morbidi, oltre che piccanti. Sono quindi raccolti e messi a essiccare sui tetti o nelle soffitte. Una volta secchi, si levano i semi, i gambi e le venature e li si macina fino a ottenere un molido o polvere.
Questo molido è considerato il migliore di tutti, ed è particolarmente apprezzato quello ottenuto dalla varietà Chimayo. Questo fragrante chili, ricercatissimo, è usato per preparare il colorado, una salsa rosso mattone a cui non occorre aggiungere alcun condimento, servita con piatti regionali come il posole (frumento passato nella calce), i chicos (frumento essiccato in forno), fagioli, enchiladas
Fino a qualche tempo fa i peperoncini erano attaccati interi a ristras o corde e appesi a seccare sotto le grondaie delle case. In cucina c’era sempre una ristra e quando occorreva un peperoncino era semplicemente preso dalla corda e polverizzato o cucinato intero con fagioli o frumento. Le ristras ci sono ancora, ma più che altro come decorazione. Non c’è dubbio che il nostro mercato è più ricco di colori grazie a queste lunghe strisce di peperoncini, l’aria è resa più fragrante da quelli messi ad arrostire e i piatti sono arricchiti dalla loro presenza. Finché riusciremo a sostenere i nostri agricoltori, ho fiducia che in questa regione continueranno a crescere i peperoncini autoctoni.

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