5.8.12

1977. Berlinguer all'Eliseo: la loro austerità e la nostra. Il ricordo d'un poeta

Per i cultori della storia del Pci e, in particolare, per gli appassionati di Enrico Berlinguer e della sua epopea il discorso al convegno degli intellettuali al teatro Eliseo, nel gennaio del 1977, è di sicuro un passaggio importante. E’ noto come il discorso sull’austerità ed ebbe molte critiche a sinistra, specie nell’estrema sinistra. Era in atto, con la bizantina trovata della “non sfiducia”, un accordo tra la Dc di Moro e Zaccagnini e il Pci, la cui base ideologica era la “solidarietà nazionale”, le cui motivazioni immediate erano la crisi economica con un grave deficit nella bilancia dei pagamenti dovuta specialmente alle importazioni di petrolio e l’ordine democratico insidiato dal terrorismo stragista e dall’attacco delle Brigate Rosse al “cuore dello Stato”.
Su questo rapporto tra Dc e Pci nel dibattito politico e nello stesso Pci si davano diverse interpretazioni. Una era quella, tradizionalmente socialdemocratica, dei sindacalisti, che si traduceva nella cosiddetta linea dei “sacrifici”, il termine preferito da Lama, che di austerità non parlava volentieri. Secondo questa lettura bisognava che la classe operaia e più in generale il mondo del lavoro consentissero con autolimitazioni salariali ed altre rinunce il rilancio del meccanismo di accumulazione capitalistica, per potere domani aspirare a una redistribuzione diretta o indiretta (attraverso i servizi dello stato sociale) dei benefici. Più politicista, e ispirata a Togliatti, era l'interpretazione di quella politica data dalla “destra” di Amendola e Napolitano, per la quale la partecipazione del movimento operaio al risanamento economico e finanziario e al ristabilimento dell’ordine pubblico, avrebbero accentuato il ruolo “nazionale” e non esclusivamente classista del Pci e favorito il suo inserimento nel grande gioco politico e nell’area del governo.
Anche Berlinguer, con la sua provocazione del “compromesso storico”, lo slogan coniato riflettendo sul golpe cileno, s’inseriva in questa lettura, ma riteneva che nel patto da stipulare tra le forze democratiche (“una nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista”) fossero essenziali alcune riforme economiche e sociali in grado di correggere le storture intrinseche al sistema capitalistico. L’“austerità”, in questa analisi che lo accomunava alla sinistra del partito, ai Reichlin e agli Ingrao, diventava un’occasione e uno strumento per cambiare il modello di sviluppo. Il convegno dell’Eliseo fu l’occasione per esplicitare i fondamenti di questa valutazione.
Ne sono documento passaggi del discorso di Berlinguer come quelli che seguono: 
“L'austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l'austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l'austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell'individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L'austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata…
L'austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l'andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Cosi concepita l'austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell'ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l'unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.
Lungi dall'essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l'austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell'austerità.
Ma l'austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l'attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell'assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell'uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate…
La politica di austerità è tuttora viziata, infatti, da carenze di vigore, di coraggio e di respiro. Ad esempio: non si è saputo ancora suscitare il necessario movimento di opinione e di massa contro gli sprechi. Contro gli sprechi in senso diretto, che sono ancora enormi (si pensi all'energia o all'organizzazione sanitaria) e contro gli sprechi in senso indiretto e lato, come quelli che derivano dal lassismo nelle aziende, nelle scuole e nella pubblica amministrazione; o come quelli, qui denunciati con particolare rigore dai professori Carapezza, Nebbia, Maldonado e da altri, derivanti da imprevidenze, di cui avvertiamo oggi tutto il peso, e da errori enormi compiuti nella politica del suolo, del territorio, dell'ambiente; o dalla trascuratezza nel campo della ricerca. C'è tutta un'azione amplissima contro gli sprechi e per il risparmio in ogni campo che avrebbe bisogno dello stimolo, della direzione, dell'iniziativa continua di un governo…”.

L’iniziativa del Pci e il discorso di Berlinguer segnarono un evidente insuccesso. Il discorso venne irriso e frainteso fuori dal partito, ignorato e snobbato al suo interno. A quel che racconta nei suoi diari Tatò, che del leader comunista era il principale collaboratore, il segretario del Pci attribuì a se stesso qualche responsabilità. Ma il fatto che quel discorso fosse “troppo avanti” non era forse un difetto. Un dirigente rivoluzionario (e Berlinguer ebbe cara fino alla fine la parola “rivoluzione”, oltre che la “cosa”) deve saper lanciare lontano lo sguardo ed indicare un percorso.
Enrico Berlinguer morì nel 1984, combattendo in prima fila per i suoi ideali, mentre parlava agli operai e ai compagni di Padova in difesa della scala mobile.
Un anno dopo “l’Unità”, diretta da Emanuele Macaluso, raccolse in un volume ricco di belle fotografie (Enrico Berlinguer, appunto) testimonianze e giudizi sul segretario del Pci scomparso. Un poeta, Giovanni Giudici, scelse di rievocare quel convegno all’Eliseo, quel discorso sull’austerità. Vi leggeva i fondamenti di una laica religiosità, vi intravedeva i tratti di una nuova socialità, di una nuova esistenza umana. Mi pare una bella testimonianza, da far conoscere. (S.L.L.)

Per il testo integrale del discorso dell'Eliseo
Appendice
Il discorso sull'austerità.
Troppo scomodo, si disse, ma era carico di futuro
di Giovanni Giudici

Per la mania e la pretesa di offrire definizioni a tutti i costi sbrigative, alcuni non sempre incolpevoli cronisti deformano molto spesso la verità delle cose; e certe deformazioni sono, appunto, tutt'altro che involontarie e innocenti. Ciò penso in articolare riferendomi a quella etichetta di «austerità» che, in questo nostro paese così pericolosamente incline allo spreco e alla spensieratezza, venne a suo tempo (otto anni fa) e continua ad essere apposta al convegno che il Partito comunista italiano promosse al Teatro Eliseo di Roma e, specialmente, al discorso che Enrico Berlinguer ebbe a leggere in quella sede.
Eravamo (come siamo ormai abituati, direi da decenni) in un momento particolarmente critico della vita nazionale, dove tuttavia si era manifestato pochi mesi prima il segno positivo di una forte volontà di «cambiamento»: la grande affermazione del Partito comunista alle elezioni politiche del 1976. Il convegno dell'Eliseo (almeno io così lo ricordo) non era dunque inteso come una pura e semplice iniziativa propagandistica, bensì come assunzione ufficiale da parte del Pei delle responsabilità di cui il voto popolare lo aveva investito. Dal corpo elettorale era venuta l'indicazione che il cambiamento» era necessario ed urgente e il Partito comunista indicava, di questo «cambiamento», la via.
Non tutte le persone presenti al convegno erano dirigenti o militanti del partito; c'erano anche altri uomini di buona volontà (rappresentanti della cultura e dell'economia, di enti locali e di sindacati), la cui adesione e presenza al convegno significavano, a loro volta, il riconoscimento del Partito comunista come massima forza storica di opposizione naturalmente investita, nell'attuazione dell'auspicato «cambiamento», di una funzione-guida.
Era una mattinata di piccola pioggia, con una temperatura abbastanza mite, di quelle che spesso ha l'inverno romano: ma, quasi in contrasto col grigiore di fuori, l'atmosfera all'interno del teatro aveva un che di fortemente positivo, di rivolto al futuro, a una speranza: o forse a determinare tale sensazione fu proprio il discorso di Berlinguer.
Giovanni Giudici
Avrei potuto facilmente riconsultarne il testo, ma non l'ho fatto quasi di proposito: non soltanto perché ciò avrebbe comportato un'analisi di tipo politico alla quale non sono preparato, bensì perché io mi ostino ancora oggi a considerare quel discorso come qualcosa di assai più importante e assai meno transitorio di un discorso puramente politico. Esso era per me, e resta, essenzialmente un appello d'ordine etico, quasi religioso; ritengo che il non aver saputo o voluto coglierne da parte della classe politica italiana questo fondamentale aspetto comporti (a carico di chi aveva i mezzi intellettuali per arrivarci) più d'una grave responsabilità. È però lecito pensare che questo aspetto fosse stato peraltro ben colto da un uomo come Aldo Moro, se principalmente a lui si dovette, di lì a un anno, la pur effimera e poi deludente attuazione di quel governo di unità nazionale, che Moro pagò immediatamente col prezzo della sua vita.
L'appello che risonava nelle parole di Berlinguer era, ripensandolo nella pur incerta memoria, quasi una summa del suo pensiero politico e della spinta innovativa che esso veniva a conferire alla tradizione ideale del Partito comunista come portatore di un nuovo modo (o modello) di vita collettiva e individuale, come garante di una fondamentale libertà e autonomia della persona umana davanti alla soverchiante marea di un assetto sociale dove il bombardamento dei cervelli imperversa e dove sono sempre altri a decidere per noi quel che per noi sia bene o sia male, quel che deve piacerci e quel che no. Parlare questo linguaggio a un paese che stava per attraversare la fase più cupa e sanguinosa (e ancora non finita) del terrorismo e della crisi economica non poteva certamente comportare alcun quadro di allettanti promesse nello spirito dell'odierna civiltà dei consumi e dello spettacolo»: nel rivendicare al Partito comunista una funzione-guida nel necessario processo di cambiamento, Enrico Berlinguer non taceva che questo «cambiamento» doveva avere un suo prezzo e che tutti (e non soltanto i lavoratori) avrebbero dovuto pagarlo. Fu, quello di Berlinguer, anche un discorso di rifondazione morale, il richiamo a una nuova socialità del tipo che è proprio delle nazioni «adulte» e consolidate, alieno da ogni utopistico dottrinarismo; fu, in questo senso, anche un discorso di rifondazione religiosa, per «religione» intendendosi che (nell'accezione laica ed etimologica della parola) il «legame» che deve ire fra loro i membri di una comunità.
Per tutte queste e certamente anche per altre ragioni e indipendentemente dall'effimera occasionalità del dibattito che ad esso seguì, il discorso di Berlinguer fu, nella sua profonda sostanza, un discorso «scomodo»; scomodo perché il secondarne le implicazioni avrebbe comportato, da parte dei singoli e della collettività, da parte di governati e governanti, un consapevole e deliberato impegno contro l'inerzia dell'andazzo alla giornata; scomodo, perché nelle sue linee ideali spesso contrastava radicalmente col miracolismo edonistico a cui ci hanno abituati l'indiscriminata esaltazione del modo di vita imposto dal capitalismo moderno e (non esiteremo a scriverlo, dal momento che non sono mai state taciute le giuste critiche in quella direzione) l'altrettanto indiscriminata demonizzazione del meno confortante modo di vivere imposto nei paesi del cosiddetto «socialismo reale».
In definitiva, il discorso di Berlinguer fu «scomodo» (e quindi un po' troppo rapidamente passato agli atti o freudianamente «rimosso»), così come è scomodo ogni discorso che sia preciso e deciso nel chiedere, cauto però nel promettere o che ammonisca, come forse già accennavo, sui rischi delle vie troppo in discesa: così è, del resto, nella tradizione di ogni vera forza riformatrice.
Resterebbe da domandarsi se la situazione rispetto alla quale Enrico Berlinguer parlò otto anni or sono dalla tribuna del Teatro Eliseo sia rimasta tale e quale oppure sia stata superata. A me sembra che sia stata superata, ma in peggio: nel senso che il disordine, la dispersione, le carenze, gli scandali, lo spreco, le devastazioni dell'ambiente e delle coscienze a cui Berlinguer opponeva, a nome del Partito comunista e di tutti gli italiani di buona volontà, quell'appello a una nuova religione sociale e a una speranza che, pur nel suo essere e voler essere terrena, non era perciò meno cristiana, si sono nel frattempo moltiplicati fino a raggiungere livelli e dimensioni quasi definitivamente incontrollabili e caratteri sempre meno riconoscibili attraverso gli strumenti tradizionali di analisi politica.
Sicché quanto più remota oggi possa apparirci e ci appaia l'occasione immediatamente politica del discorso dell'Eliseo, con tanto maggiore evidenza continua ad imporsi, anche al di là dell'area di consenso propria del Partito comunista, la sua attualità ideale, la sua carica di futuro e la sua capacità di anticipazione, in netto contrasto con le meschinità d'ogni piccolo cabotaggio politico. Perciò mi piace pensare talvolta a quel discorso come a un «manifesto» di ecologia umana.

1 commento:

  1. A 37 anni di distanza dimostra l'attualita' di una riflessione sull'impegno politico dell'essere cittadino al centro della vita sociale dove la realtà si manifesta e vive perchè c'e una lotta tra chi domina e chi non dev'essere dominato. Bisogna studiare e capire questo sistema di relazione e scegliere dove e che fare. ovvero da che parte stare e impegnarsi per cambiare o no. Gia allora Berlinguer denunciava la deriva del consumismo, dell'individualismo e dello sfruttamento delle risorse naturali e umane per il profitto e non per il bene comune

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