6.8.12

A piedi e sul tramway. La Torino di Emilio Salgari (Luciano Del Sette)

Quella mattina di martedì 25 aprile 1911, Emilio non indossava l’impermeabile giallo che gli dava riparo dal freddo e dall’umido nelle sue passeggiate notturne lungo le rive del Po. Era primavera, era giorno, faceva già caldo. Il profumo dell’aglio selvatico arrivava dalle colline fino alla casa di corso Casale 205. Come Emilio fosse vestito, le cronache dell’epoca e del giorno dopo non lo riferirono. Poco spazio fu dato alla notizia di un suicidio, tanto più quello di un uomo famoso, che strideva con l’atmosfera trionfale e celebrativa di una Torino sede dell’Esposizione Universale.
Quella mattina, Emilio scese le scale, si fermò nel cortile del modesto condominio dove abitava,
salutò i figli, annunciò la sua assenza all’ora di pranzo, raccomandò loro di andare a scuola. Oltrepassò il portone, attese il tramway, ci salì sopra, in direzione di Val San Martino. Portava, nelle tasche del vestito, tre lettere e un rasoio. Scese dal tramway, raggiunse strada del Lauro, imboccò la seconda traversa a destra, strada della Lauretta, affrontò la salita. La sua ultima salita. Si fermò nello spazio di una piccola radura circondata da alberi fitti e solcata da fossi poco profondi. Davanti a uno di quei fossi, tirò fuori il rasoio, ne fece scorrere la lama prima sulla gola e poi sull’addome, e cadde in mezzo alla terra umida.
Lo trovarono il giorno dopo, il corpo di Emilio Salgàri. Le tre lettere nelle tasche del vestito erano rivolte ai figli, ai direttori dei giornali torinesi, agli editori dei suoi libri. Tre lettere che trasudavano, nelle loro poche righe, amarezza, risentimento, rimpianti, dolore, sconfitta, e un’estrema richiesta di aiuto. A chi aveva pubblicato i suoi romanzi ambientati in ogni luogo del mondo o quasi, e da quelle migliaia di pagine aveva ricavato profitti enormi, Salgàri lasciò un messaggio lucidamente feroce e accusatorio.
L’aveva scritto il 22 aprile 1911: «Ai miei editori. A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». Dopo qualche mese, uno di quegli editori incassò la somma di cinquantamila lire da un’assicurazione. Frutto di una polizza che prevedeva un cospicuo risarcimento in caso di incidente o di morte dello scrittore. Salgàri continuava a fruttare denaro, anche se la sua penna si era spezzata.
Torino celebra nel 2011 il secolo trascorso dalla morte del padre di Sandokan e di tanti altri eroi.
L’anno prossimo, invece, sarà trascorso un secolo e mezzo dalla sua nascita, il 21 agosto 1862, ma chissà se qualcuno avrà voglia e denaro da spendere in memoria di questa data. Il nostro omaggio, il nostro modo di ricordare Emilio, è una lunga passeggiata torinese, cui vi chiediamo di unirvi spronando la fantasia per immaginare luoghi che non sono più tali, atmosfere dissolte dal rumore e dai cambiamenti urbani, lo scorrere vellutato di un tramway invece del ruggito di un autobus.
Dall’alto, allora, la partenza. Dall’alto e dalla strada della Lauretta dove sentirete ancora forte e intatto, in questo aprile di cent’anni dopo, il profumo dell’aglio selvatico. Torino è «sotto», a ridosso delle sue colline eppure lontana la misura giusta per avvertire appena la cacofonia del traffico. L’auto è necessaria, almeno fino ai piedi della salita. E serve di nuovo, in discesa, per raggiungere il numero sessanta di corso Chieri.
Lì, il Po scorre a pochi passi da quello che oggi si chiama Campus Salgàri: un’area verde di 120 mila metri quadri dove Enzo Maolucci, cantautore torinese di una certa celebrità negli anni ’70 e ’80, ha costruito un mondo dedicato all’avventura, in cui si addentrano i bambini, e i grandi che non vogliono smettere di sentirsi, almeno in parte, tali.
Divenne jungla, quel verde selvatico, per Salgàri, e il Po cambiò il suo nome in Gange, quando lo scrittore approdò a Torino per la prima volta, nel 1892. Portava con sé la moglie Ida Peruzzi, soprannome certo non casuale «Aida», attrice, e la prima figlia, Fatima, ancora piccolissima. Nasceranno poi Nadir nel 1894, Romero nel 1898 e Omar nel 1900. A chiamare qui Emilio era stato l’editore Speirani, che ne aveva compreso il genio letterario e da quel genio la possibilità di ricavare denaro sonante. Grande, infatti, era stato il successo del romanzo La tigre della Malesia, pubblicato a puntate sul quotidiano “L’Arena di Verona”. La famiglia Salgàri va ad abitare in via Guastalla, un paio di chilometri dal fiume, e da lì ama concedersi gite domenicali in mezzo alla natura di Val San Martino. La fantasia dello scrittore galoppa, e per Speirani, ma anche per Bemporad, Treves, Paravia, produce in soli sei anni più di una ventina di romanzi. Tra gli editori c’è anche il genovese Donath, che nel 1898 convince Salgàri a trasferirsi, con moglie e figli, nel capoluogo ligure. E proprio nel 1898 viene dato alle stampe Il corsaro nero.
Genova, il quartiere di Sampierdarena, quel mare che Salgàri mai era riuscito a solcare davvero. Dura poco, l’idillio con la città. L’inizio del nuovo secolo segna il ritorno a Torino, nella casa di corso Casale 205, accanto alla chiesa della Madonna del Pilone. Il Po è proprio lì. Emilio cerca e trova ispirazione lungo le sue rive, le canoe che sfilano a colpi di remi diventano piroghe, i tranquilli cittadini che passeggiano sotto l’ombra degli alberi si trasformano in feroci selvaggi, le tote (le signorine) prendono il volto della Perla di Labuan.
Quasi ogni giorno, Salgàri sale sul tramway per andare alla Biblioteca Nazionale, in piazza Carlo Alberto. Consulta per ore e ore gli atlanti geografici e i libri di zoologia e botanica. Già, perché se la libertà narrativa poteva, anzi doveva, correre a velocità vertiginose, lui, l’Emilio, era pignolo fino allo stremo quando si trattava di descrivere animali e piante, geografie e paesaggi, popoli e razze.
Costretto da difficoltà economiche sempre più pressanti, sfruttato dai suoi editori, privo dei vantaggi del diritto d’autore allora inesistente, Salgàri passa giorni e notti riempiendo fogli bianchi. Subito oltre il ponte di piazza Gran Madre di Dio, c’è piazza Vittorio con i suoi portici, e poi la linea retta di via Po, che si spezza in piazza Castello. Seduto su un seggiolino in legno del tramway, affastellando pensieri e angosce nella testa, Emilio ci avrà dato appena uno sguardo. Magari quando si recava nella sede della Speirani, in via san Francesco d’Assisi 11; o quando aveva scelto gli abbaini sui tetti del palazzo di via Bligny 10 come luogo di riunione per gli scapigliati del romanzo La bohème italiana, scritto due anni prima di morire. La «sua» Torino era soltanto e veramente il Po, in quel tratto di corso Casale, a due passi da casa, che percorreva nel buio della notte, con addosso l’impermeabile giallo. Il resto era decine di sigarette e qualche bicchierino di Marsala, consumati nello studio, antidoti alla fatica di scrivere sotto il peso di contratti capestro.
Ida/Aida gli era sempre rimasta accanto, ma da tempo, nella mente della donna, qualcosa aveva cominciato a frantumarsi. A marzo aveva scritto una lettera all’editore Bemporad, nella quale chiedeva aiuto. Rifiutato. L’incubo di una miseria insopportabile stava diventando realtà. Il 19 aprile del 2011, Ida/Aida ha una violenta crisi di nervi. Il medico che la visita ordina il ricovero al Regio Manicomio di Torino, dove la donna viene internata con la matricola 29391 e l’indicazione dello stato sociale di «povera». Nove anni dopo si ammalerà di tumore, vagherà per ospedali, e morirà il 30 settembre del 1922. Il Regio Manicomio, al numero 22 di Carlo Ignazio Giulio, non molto distante dal mercato di Porta Palazzo, è stato chiuso con la Legge Basaglia, restaurato, e adibito a sede di alcuni uffici del Comune. Emilio non trovò il tempo di andare a trovare Ida/Aida. Proprio da quella separazione tremenda arrivarono il colpo di grazia, la decisione di mettersi in tasca il rasoio e salire fino alla radura di strada della Lauretta. Lasciò scritto ai suoi figli: «Sono ormai un vinto. La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni dei miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti ed istruiti provvederanno a voi... Mantenetevi buoni ed onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti, col cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre». La tubercolosi si porterà via Fatima nel 1914. Romero si suiciderà nel 1931, dopo aver tentato di uccidere la moglie e il figlio. Nadir sarà vittima di un incidente mortale cinque anni dopo. Omar metterà fine ai suoi giorni nel 1963. Avremmo preferito che Torino ricordasse Salgàri quando duellava a Verona, sognava di diventare capitano di lungo corso, cominciava a immaginare Sandokan e Kammamuri, volava con il pensiero sopra l’Atlantico in pallone. Ma forse, anzi certamente, non importa. Perché Emilio Salgàri possiede il meraviglioso dono, la formidabile certezza, dell’immortalità.

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