9.8.12

Cultura, un patrimonio sprecato (di Renato Nicolini)

Per molti compagni Renato Nicolini è stato soprattutto, se non soltanto, l’inventore di Massenzio e dell’Estate Romana.
In realtà quella sua idea e quella sua gestione dell’assessorato alla cultura nella Capitale, nonostante le polemiche spesso gratuite contro l’Effimero,  fu la più forte e positiva risposta al degrado della città, all’invito a rinchiudersi in casa che veniva dal combinato disposto degli anni di piombo e delle televisioni private di Berlusconi. Il “Riprendiamoci la città” che, nell’estremismo dei lottatori continui alla Sofri e De Luca, spesso si trasformava in strafottenza e insicurezza collettiva, diventava gioia di stare insieme, e l’effetto di padronanza si arricchiva delle più svariate sollecitazioni culturali e artistiche. Cose puntuali sul tema dei rapporti tra movimento del Settantasette ed Estate Romana si ritrovano in un articolo che Nicolini scrisse per una “talpa” del “manifesto” a 10 anni di distanza, saggiamente ripubblicato pochi giorni fa dal quotidiano comunista. Andrebbe riletto. 
Tuttavia ridurre l’esperienza politica e culturale di Renato Nicolini a quella, pur indimenticabile, stagione, ignorando tutto quel che viene dopo, è fargli un grande torto. L’assessore dell’effimero, infatti, aveva principi e valori duraturi e non si piegò pertanto né all’affarismo clericaleggiante di Rutelli né al buonismo clientelare di Veltroni.
Si oppose da sinistra, come candidato sindaco di una lista civica progressista e di Rifondazione Comunista, all’avvento di Rutelli con un programma su Roma molto avanzato e molto attento alle periferie. E si oppose, con interventi puntuali, al veltronismo cementificatore.
Simpatizzò, per qualche tempo, per il Pd, ma riconobbe abbastanza presto che non era affatto quel luogo aperto della politica di centro-sinistra che aveva sperato. Meno di due mesi fa, in una sorta di autocandidatura a sindaco di roma, scrisse che il quindicennio Rutelli-Veltroni era da dimenticare e che, dopo lo sfascismo di Alemanno, era semmai alle giunte rosse degli anni Settanta, ad Argan e a Petroselli che bisognava ricollegarsi.
Negli ultimi anni della sua vita è stato collaboratore assiduo del “manifesto”, intervenendo puntualmente su questioni romane, sulla politica culturale, sull’università, su temi d’architettura (era tra architetto militante, ingegnoso e colto). Il pezzo che segue commenta scelte del passato governo, ma ben si attaglia anche al nuovo, di banchieri, professoroni e tecnicume vario. (S.L.L.)
Il declino italiano degli ultimi vent'anni ha l'andamento della farsa; lo ha descritto perfettamente Paracult, il blob estivo di questi ultimi vent'anni, 1991-2011.
La "sussidiarietà" ricorda il sussidiario, ha il nome regressivo e rassicurante da vecchio libro della scuola nozionistica, ma la sussidiarietà all'italiana ha una storia precisa: la sanità privata (San Raffaele compreso), Muccioli e Don Gelmini, i soldi alla scuola privata, la privatizzazione dell'Università di eccellenza, lasciando allo Stato quella di massa, numerosi pasticci pubblico-privato.
Dovremmo gridare, anche pagando il prezzo della rottura con vecchie bandiere, che siamo contrari a questa invocata etica dell'austerità.
S'invocano sacrifici, ma si comincia sempre col tagliare la spesa dello Stato per la cultura. La cultura è la bestia nera, è intesa come sinonimo di spreco. Peggio persino del costo e dei diritti del lavoro. Lo dice Tremonti, ma anche Scalfari lo pensa, quando manda avanti Baricco a chiedere di spostare all'editoria quello che si dà allo spettacolo. L'Italia futura di Montezemolo parte dalla ritirata del pubblico dalla cultura, la cessione dei diritti d'immagine del Colosseo a Diego Della Valle (eppure già Orazio ammoniva sutor nec ultra crepidem, "ciabattino non andare oltre la scarpa") per la miserabile somma di 25 milioni di euro, è già la fotografia di quest'intenzione. Mario Resca ha preparato il terreno, con la sua idea che valorizzazione dei beni culturali coincida con l'aumento del numero dei biglietti venduti. Policarpo ufficiale di scrittura l'Italia dell'Ottocento l'avrebbero pensata così.
Al contrario, la sola via di salvezza dell'Italia oggi passa per la risorsa cultura. L'investimento in cultura, checché ne pensi Tremonti, genera immediatamente una (piccola o grande, limitata alla vita delle città o estesa alla riconoscibilità di un paese nel mondo globale) crescita economica. Nessun altro tipo di spesa pubblica può produrre quest'effetto. E se poi pensiamo agli investimenti di lungo periodo, dove se non in Italia ci potrebbe essere un'università di eccellenza, capace di attirare studenti da tutto il mondo, sul patrimonio culturale, e sulla straordinaria tradizione di qualità della vita nelle nostre cento città? Dove ci potrebbe essere una scuola di formazione superiore, con ambizioni mondiali, per l'opera lirica, per il teatro, per il cinema? Siamo o non siamo il paese di Rossellini e di Bava, di Visconti, Strehler, Ronconi e De Berardinis? Se solo l'Italia si riallineasse alle scelte europee di Francia e Germania, che in modo diverso, attraverso lo stato centrale o le Regioni, investono grandi quote del proprio Pil in cultura. E se concepissimo le grandi opere come restauro del paesaggio e della bellezza del territorio e delle nostre città, altro che ponte di Messina e Tav!
L'ironia maggiore è che spesso abbiamo creato un sistema di grandi attrattori culturali, e - già spesi centinaia di milioni di euro di denaro pubblico per creare il capitale fisso e l'immagine giusta - ce ne chiamiamo fuori.
In questo Roma è davvero capitale. Non si fa a tempo ad inaugurare il Maxxi di Zaha Hadid che il Ministero dei Beni Culturali se ne chiama fuori e lo trasforma in Fondazione dalle scarse risorse economiche, strutturalmente incapace di reggere la corsa del Guggenheim, del Centre Pomipdou e persino di Bilbao, cioè la concorrenza. E qual è il futuro prossimo dell'Auditorium Musica per Roma, unica nostra azienda culturale di dimensione europea, in questi tempi di ritirata? Intanto il Macro, l'Azienda autonoma Palaexpò sono già offerti in svendita ai privati.
Come il cane di Esopo, si lascia cadere in acqua quello che si ha, e si desidera quello che non si ha, con provvidenziale fiducia nel grande evento: Napoli 2013, Milano 2015, Roma 2020 che siano, inventandosi assurdità come il circuito di Formula 1 all'Eur, proponendosi di cementificare l'Eur come unica maniera di finanziare cantieri infiniti, il cui costo non si è mai stati capaci nemmeno di prevedere, altro che gestire.
Ogni seria analisi sulla gestione della spesa pubblica per la cultura, anche attraverso aziende esternalizzate, sul modello dell'agenzia per il cinema francese, etc. - studi che pure esistono, elaborati negli ultimi vent'anni da economisti come Paolo Leon o Pietro Valentino, o da associazioni come quella per l'economia della cultura o Federculture - vengono disattesi o, peggio, ignorati. Invece resistono gli sprechi clientelari più chiaramente pubblicitari, come i milioni di euro buttati dalla Regione Calabria in spot sui Bronzi di Riace o per avere la diretta Rai di Miss Italia.

“il manifesto” 14 settembre 2011


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