22.8.12

Praga 68. La Primavera tra speranza e isolamento (Luciana Castellina)

Dubcek e Brezhnev a Bratislava durante l'incontro Pcus-Pcc il 7 Agosto 1968.
L'esito fu definito positivo, ma due settimane dopo i carri armati sovietici
e le truppe di 5 paesi del patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia.
Per i ragazzi che in queste settimane sono tornati a riempire le strade gridando slogan tanto simili a quelli strillati dai loro coetanei del sessantotto, la notizia della morte di Alexander Dubcek deve esser passata inosservata, tutt'al più qualcuno avrà saputo dall'Unità che quel signore, oggi presidente del parlamento, sarebbe stato un ingenuo sognatore e eroe per aver riconosciuto, fra i primi, la morte del comunismo. Ma quel movimento del sessantotto - di cui questa nuovissima generazione ricerca con curiosità le tracce dopo un quindicennio di astioso oblio - senza quel nome, Dubcek, o meglio senza la vicenda di cui fu il più drammatico protagonista, non avrebbe forse neppure potuto decollare. Perché, ben al contrario di quanto oggi si vorrebbe, fu proprio quel tentativo di rinnovamento profondo rischiato dal patito cecoslovacco, di cui egli era allora segretario, a consentire, cosi come per altri versi il maoismo, la riscoperta entusiasta di un comunismo che il burocratismo repressivo dei regimi brezneviani aveva da anni reso inappetibile. Oserei dire che persino il nostro attuale tentativo di rifondazione in tanto può essere azzardato in quanto dietro le nostre spalle c'è quell'altro tentativo della Primavera di Praga, che ebbe il pregio di indicare una strada possibile per un comunismo diverso. Non un ammodernamento tecnocratico, e neppure riforme introdotte dall'alto da un vertice illuminato, come era accaduto altrove e senza successo, bensì un'esperienza fondata su una straordinaria - ed inedita da decenni - partecipazione di massa, in primo luogo degli operai.
Certo, in quella concitata stagione cecoslovacca, non ci fu solo mobilitazione proletaria e comunismo. Ci furono anche spinte occidentalizzanti e non avrebbe potuto essere diversamente. Ma quel che avrebbe dovuto contare è che il processo era saldamente in mano al partito e che anzi mai come in quella fase ci fu una cosi grande coincidenza fra governanti e governati, un così attivo consenso, una cosi grande fiducia. L'intervento militare dei partiti "fratelli" al potere nei paesi del Patto di Varsavia, che poi strozzò l'esperimento, dovette invece affidarsi alle armi per consolidare il proprio orto trincerato e il proprio modello di socialismo.
Qui sopra riproduciamo l'appello "ai partiti fratelli" lanciato dal XIV congresso straordinario del Pcc, tenuto clandestinamente dentro la fabbrica Ckd e sotto la protezione delle milizie operaie, il 22 d'agosto, il giorno successivo all'occupazione. A raccogliere quell'appello - che riuscì a passare le frontiere solo un anno dopo, fu, in Europa, solo il Partito comunista italiano. La sua solidarietà l'aveva anzi già manifestata, condannando, sin dal primo giorno, l'invasione voluta da Breznev, sia pure ricorrendo, nella sua accusa, alla formula limitativa di "un errore". IL Pci,- nonostante la richiesta contenuta nell'appello del Pcc, si recò in effetti alla Conferenza dei partiti comunisti
tenuta a Mosca nel novembre dell'anno successivo: ma proprio in quella sede impose - e fu un
fatto nuovo - il metodo del confronto esplicito e poi si rifiutò di votare il documento finale approvato dalla stragrande maggioranza, Pcf in testa, in cui si ignorava nientemeno che la vicenda cecoslovacca e il dissenso con la Cina.
Ma quel dissenso restò purtroppo marginale rispetto ad uno schieramento che rimarrà monolitico attorno alla leadership del Pcus, pur da 13 anni ufficialmente decaduto dalla sua collocazione di "partito guida".
Fu, quella scelta coraggiosa di Longo e di Berlinguer, in qualche modo una prova di "internazionalismo proletario". In circostanze certo inattese: i comunisti erano stati abituati a pensarlo contro l'imperialismo e si erano trovati invece a doverlo esprimere affrontando la drammatica conseguenza delle contraddizioni interne al proprio stesso movimento. Anche per via di questa novità traumatica la condanna dell'intervento armato a Praga, anziché, come avrebbe dovuto essere, premessa di una riflessione che doveva necessariamente svilupparsi, restò per molti anni un dissenso circoscritto ed irrigidito, tanto da poter convivere con l'archiviazione di fatto del caso cecoslovacco che seguì. La formula "dell'unità nella diversità" che Togliatti aveva pensato in un contesto e per ragioni tutte diverse - impedire, nel momento in cui esplodeva il conflitto con il partito cinese, che si negasse l'autonomia necessaria - finì in qualche modo per diventare quasi l'alibi dietro cui via via crebbe l'idea che ognuno faceva come gli pareva. Una preziosa indicazione di metodo, insomma, che però fini per giustificare la rinuncia ad una ricerca di merito sulle società del socialismo reale che, se condotta spregiudicatamente già allora, avrebbe potuto forse evitare che si giungesse a tanti frettolosi liquidazionismi a posteriori e all'attuale crisi dell'internazionalismo.

da "Liberazione" 22 novembre 1992

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