13.9.12

Abelardo ed Eloisa (di Rossana Rossanda)

Nell’agosto del 1986, “il manifesto” scelse come lettura per l’estate da offrire ai propri affezionati utilizzatori la “rilettura” di autori e testi canonici affidata a redattori, collaboratori, intellettuali amici del “quotidiano comunista” sotto il titolo Un tocco di classico. A Rossana Rossanda toccarono l’Historia calamitatum di Pietro Abelardo con le lettera su codeste disgrazie di Eloisa, insomma la celebre e tragica vicenda d’amore, diventata paradigmatica grazie a Jean Jacques Rousseau e a Denis de Rougemont. Ne propongo qui un brano. (S.L.L.)

Abelardo ed Eloisa vanno letti un po' come un romanzo d'amore, un po' come un romanzo giallo. Stando attenti a non cadere nell'apparenza; quel che crediamo di sapere dell'alto medioevo e delle donne, e forse dell'amore, rischia di disorientarci. Credo che raramente le donne, tutte le donne, abbiano conosciuto la condizione di servaggio del secolo scorso: in Francia, in Italia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra furono in quello scorcio di medioevo, nel sobbollimento della chiesa e della società, e assai prima della fondazione dello stato moderno, figure sociali e individui forti. Partiamo da qui.
Giacché suggerisco di leggere dalla parte di Eloisa. Pietro Abelardo ha lasciato molte opere, anche se una ha dovuto pubblicamente gettarla alle fiamme; è un pensatore ambizioso, acuto, inquieto, sulla cui religiosità esiterei a pronunciarmi. La lettura dei suoi libri è lavoro da medievalista, e cercare in essi un riflesso della sua storia personale potrebbe essere inutile: è dell'uomo dividersi in due più facilmente di noi. Eloisa non ha lasciato libri, forse qualche carme, come quello da cantare durante la sua morte. A sedici anni conosceva latino, greco ed ebraico; sapientissima «nella scienza profana più di ogni donna e più di quasi ogni altro uomo» scrisse Pietro il Venerabile, abate di Cluny, che se ne intendeva. Frequentò sempre i greci e Seneca come il vangelo e, sospetto, con non dissimile spirito. Scrisse splendidamente, ma non sentì il bisogno di fare del pensiero scrittura. Succede a molte coltivatissime e pensose donne. Eloisa era interamente impegnata, diremmo oggi, a costruirsi una identità e una vita e condusse l'opera a termine senza una debolezza e senza un conforto.
Dipendente, spossessata di sé? Non sembra. A sedici anni, splendida allieva confidata al più brillante maestro della scuola di Parigi, ne è — scrive lui — sedotta; oltre diciotto anni dopo lei scriverà che quei loro abbracci, e il come, e il dove, sono vivi nella sua mente e marcati nel suo corpo, non se ne pente, li rimpiange, e anche quando sembra che preghi, il ricordo delle passate dolcezze non l'abbandona. La psicologia di lui è più semplice. Prima quella passione lo colma, distogliendolo dalla ricerca; poi vuole sposare Eloisa «come riparazione». E' la sola offesa che ella gli rimprovererà; né lui né lei — non inganni la freddissima umiltà delle sue parole sulla sua condizione di donna — sono fatti per un menage casalingo, figli e noie. Lui non le interessa come marito, ma come uomo; con tutto il suo cervello e tutto il suo corpo. Tuttavia consente a sposarlo ma di nascosto; lo zio di lei, Filiberto, fa sorprendere Abelardo nel sonno e lo fa evirare. Pratica orripilante, ma diffusa: i suoi feritori sono evirati anch’essi e in più accecati. L’uomo pubblico ne soffre molto, l’uomo privato si considera liberato per sempre da sentimenti e bisogni d’amore: la sessualità di Abelardo è semplice, del suo inconscio ha poca contezza. D’ora in poi sarà sempre solo e neutro; Eloisa – la sua squisita “sua sponte, mea voluntate” – prende il velo e diventa badessa di un monastero femminile dedicato allo Spirito Santo (il quale avrà per un paio di secoli rapporti con la femminilità poi perduti). Dal 1120 al 1134 i due si vedono sempre meno, sempre più gravi e disperate sono le dispute di Abelardo e anche le sue sconfitte e povertà.
Nel 1134 scrive a un amico la storia delle sue disgrazie: la lettera cade nelle mani di Eloisa che ardentemente gli chiede: perché non a me? Perché non parli a me? Eppure sai che nulla mi attendo da Dio, perché nulla faccio per lui e non lo amo. Abelardo, spaventato di lei, di sé, scantona, la invita a sentirsi sposa di Cristo, e presto le dirà il classico: se continui in questo modo, non ti rispondo più.
Lei non scriverà più «in questo modo». Ma, indomita, intesterà la sua lettera, Domito specialiter, tua singulariter. Di dio per la specie, tua come individuo.
Egli morrà lontano, ventiquattro anni prima di lei, l'età che li separa; lei chiederà e otterrà il suo corpo, e lo raggiungerà a sessantaquattro anni senza mancamenti, urla e misticherie. Ha diretto con sapienza un convento dove si studia e, per chi ne è capace, si prega; non ci si macera il corpo.
Esperta di esso, Eloisa come Abelardo e più di lui sa che l'ascetismo è una sensualità rovesciata; così propone una nuova regola, perché quella benedettina non ha preso in considerazione le donne, e, con qualche malizia sulle debolezze del suo sesso, trova saggio non imporre alle consorelle invernali levatacce, ruvidi abiti (si direbbe, scrive, che San Benedetto ignorasse che le donne hanno le mestruazioni) difende l'uso di pochi indumenti ma comodi, di qualche ora di sonno, di frutta, talvolta di carne. Il suo discorso con Abelardo sul monachesimo femminile ricorda più la saggezza tardo romana che le contemporanee storie di religiose nordiche, passanti da una visione all'altra. Eloisa di visioni non ne ha.
E poi, la morale dell'intenzione è intellettualmente meno addomesticabile; ed essa la comparte con Abelardo. Per questo non dà in escandescenze e non si assolve. Vive in piedi, lontana, in parallelo a quel suo uomo inquieto e mutilato: «ille tuus», le scriverà Pietro il Venerabile, nel solo acuto tentativo di riconciliarla con dio; ora Cristo lo custodisce sul suo petto, come lei stessa farebbe, «ut te alteram», per renderglielo il giorno del giudizio.
Eloisa è «dipendente»? Da che fuor d'una scelta che si è imposta? E’ negata nella sua identità femminile? Lei che della condizione femmi¬nile abituale non ha accettato nulla, e nel convento ha creato uno spazio dal quale non accetta che il minimo delle obbededienze (lo dirigerà in prima persona), né cerca accomodamenti e oblii?
Forse dovremmo, noi donne di oggi, visitare quelle che ci hanno preceduto con un'ipotesi più complessa dell'autonomia del nostro sesso.

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