8.9.12

Arturo Carlo Jemolo, un «malpensante» giansenista (di Massimo Raffaeli)

Arturo Carlo Jemolo
La Resistenza e il Concilio come possibilità di redenzione etico-politica d’un Paese confuso

Nel paese in cui l’uso pubblico della religione cattolica è così inveterato da poter iscrivere nel senso comune persino l’insegna dell’ateismo devoto, Arturo Carlo Jemolo (Roma 1891-1981) piuttosto che un cattolico liberale amava definirsi «liberale cattolico». E, rara avis, sul serio lo era. Nell’imminenza del Concilio Vaticano II, il maestro di diritto ecclesiastico, già autore di Chiesa e Stato in Italia (Einaudi 1948, negli anni riveduto e ristampato), avanzava il seguente rilievo: «Chi scrive è un superstite separatista, convinto che ogni legame tra Chiesa e Stato nuoccia ad entrambi. […]Ma sa pure che questa fede separatista siamo ormai in ben pochi ad averla, che i più degli italiani sentono pochissimo il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, meno che un secondario problema economico». Il brano di stretta osservanza cavourriana è tratto dal volume Il Malpensante (Nino Aragno editore, pp. 242, € 12,00), che sceglie e riorganizza gli articoli (una quarantina, databili fra il ’55 e l’81) della sua lunga collaborazione a “La Stampa”: cura l’antologia, con una densa introduzione, Bruno Quaranta, critico letterario che è firma storica di quel giornale e richiama virtualmente nel titolo i fuoriclasse del liberalismo che nel dopoguerra collaborarono al quotidiano torinese, fra i quali si annovera, per citarne uno solo, Arrigo Cajumi, l’autore dei Pensieri di un libertino (Einaudi 1950), oggi totalmente dimenticato.
La scheda biografica di Jemolo è la stessa di un grande testimone del suo secolo: figlio di un burocrate siciliano e di una ebrea piemontese, maestra elementare imparentata con i Momigliano, studia a Torino ed è allievo di Francesco Ruffini; partecipa alla Grande Guerra e, dopo una lunga prigionia, a Roma approfondisce il rapporto con Ernesto Buonaiuti, battistrada e martire del modernismo religioso, l’altro suo vero maestro; nel ’25firma il manifesto antifascista di Benedetto Croce e nel 1933 sale sulla cattedra di diritto ecclesiastico alla Sapienza, primo approdo di una vita di studi e di militanza su giornali e riviste il cui lascito è un’imponente bibliografia scientifica e pubblicistica (qui, oltre a Chiesa e Stato, vanno almeno ricordati Il dramma di Manzoni, Le Monnier 1973, e Questa Repubblica. Dal ’68 alla crisi morale, ivi 1981), cui si aggiunge lo stupendo divertissement, uscito postumo e intitolato Scherzo di ferragosto (Editori Riuniti 1983), da cui gli affezionati lettori di Jemolo ebbero l’ennesima riprova di essere al cospetto di un autentico scrittore. Fermo e nitido il suo stile, nemico dell’intellettualismo fumista come del confuso misticismo tipico – diceva – dell’«Italia paolotta», per Jemolo il cristianesimo è impegno per il bene comune e spirito di carità, nei termini di un rigore morale che rinvia al luogo elettivo della sua formazione, il giansenismo di Port Royal; d’altro lato, il suo liberalismo corrisponde a una scelta progressivamente maturata e si riconosce nella temperanza fra esigenze, altrettanto legittime, di giustizia e libertà: se Jemolo infatti vede nel fascismo una sordida contraffazione degli ideali del Risorgimento, viceversa legge nella Resistenza il necessario compimento di quest’ultimo quando parla addirittura di «roveto ardente», come fosse un cimento assoluto e purtroppo irripetibile, a proposito del biennio 1945-’46.
Alieno dalla retorica, persuaso di essere soltanto un piccolo borghese peraltro molto fiero della frugalità e del riserbo della sua classe atavica, dice tuttavia di venerare la figura di Ferruccio Parri, il 18 aprile vota per il Fronte Popolare e in seguito si batte duramente contro la cosiddetta legge-truffa: già anziano, approva la legge sul divorzio e ammette, confessando di sentirsi atrocemente in crisi, quella sull’aborto.
Di lui, che fu assiduo collaboratore de «Il Ponte», qualcuno ha parlato come di un maestro la cui lezione sia opposta e complementare rispetto a quella del suo amico Piero Calamandrei. Ora lo conferma, anche nel dissenso, la scansione del Malpensante dove tornano, in cinque sezioni, i temi del rapporto fra laici e cattolici, i problemi di diritto e di costume, i passaggi cruciali della storia italiana e infine la complessa vicenda conciliare fra Giovanni XXIII e Paolo VI. Potrà dunque disorientare o addolorare il fatto che Jemolo non amasse la Costituzione della Repubblica. Ciò risulta a chiare lettere nella celebre conferenza del ’65 ai Lincei (ora inclusa nel prezioso libretto Che cos’è la Costituzione, a cura di Alberto Cavaglion, introduzione di Gustavo Zagrebelsky, Donzelli 2008), in cui esordisce apprezzando la stringatezza dello Statuto albertino e procede con una disamina serrata, talora sarcastica e impietosa, di tutte le espressioni della Carta che ritiene vaghe, enfatiche (specialmente agli artt. 1, 4, 32) o insomma gonfie dello stile dove brillerebbe a suo dire «il sole dei poveri» e cioè la retorica del fascismo medesimo.
Più di dieci anni dopo, il 22 gennaio del 1978, in piena crisi della Repubblica, un suo articolo incluso nel Malpensante, e allora intitolato «Costituzione confiteor», inizia con queste durissime parole: «Il trentennio della Costituzione è stato ricordato su tutti i fogli, quasi sempre con tono laudativo. Sono stato quatto, perché non ho alcuna in varie sedi espressi, che giudico la nostra Carta troppo enfatica, con troppe promesse vaghe ed alcune non mantenibili, troppo ottimistica, non prevedendo periodi eccezionali e misure congrue per tali periodi, e rimandando a leggi avvenire proprio i punti scabrosi. Ma non sono così cieco da dare colpa alla Costituzione dei guai presenti; le Carte costituzionali contano assai meno delle passioni e delle capacità degli uomini; e credo che i nostri mali attuali si verificherebbero lo stesso se anche avessimo una Costituzione perfetta; uomini politici e giuristi sono sempre pronti ad appellarsi ad uno spirito delle leggi, per far dire loro l’opposto di ciò che le norme esprimono». A Jemolo è stata evidentemente risparmiata l’epoca in cui la Carta del 1948 è resa simile a un proclama sovietico, perciò passibile di qualunque insulto o manomissione e, se possibile, di una sua virtuale abrogazione.
Ricorda Quaranta introducendo Il Malpensante che, appena trentenne, lo stesso Jemolo aveva scritto: «Beato colui che più si è approssimato al roveto ardente, e ha udito la voce divina».
Nel 1978 quella voce, che un tempo aveva associato ai fatti
della Resistenza, sembra essere per sempre ammutolita. Fra marzo e maggio si consumano la strage di via Fani, il rapimento e quindi l’assassinio di Aldo Moro: per il grande studioso, un uomo quasi novantenne ma ancora lucidissimo, è il colpo che annuncia la fine di un mondo cui non gli è più lecito concedere nessuna speranza. Poco dopo, in estate, nella sostanziale indifferenza della pubblica opinione, muore Giovanni Battista Montini, Paolo VI, colui che ha gestito e concluso il Concilio: l’8 agosto Arturo Carlo Jemolo lo ricorda commosso su “La Stampa” come il papa della nuda testimonianza e, alla lettera, come l’uomo dell’umiltà «che aveva parlato di colpe storiche della Chiesa e forse aveva chiesto a Dio fin dalla elezione di esserne la vittima espiatoria». Nient’altro poteva oramai confortare il vecchio giansenista, rimasto solo nella notte della democrazia.


"alias", 24/9/2011

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