25.9.12

Dopo la morte di Pippo Fava. Il figlio Claudio racconta.

Fu come se quella morte avesse fatto precipitare ogni pudore, ogni finzione, ogni ipocrisia: Giuseppe Fava era stato ucciso e adesso occorreva disperderne ai venti ogni memoria, ogni pensiero molesto. Fu proprio il giornale di Ciancio il primo a provvedere. La mattina dopo, il 6 gennaio 1984, tra parole a lutto e titoli di circostanza, cominciò l'insinuazione, la processione dei punti interrogativi: ma chi lo dice che sia stata la mafia? Che c'entra poi la mafia con Catania? Che c'entra con Pippo Fava?
Il primo articolo portava la firma di Tony Zermo, vecchio amico di mio padre, compagno di un tempo che li aveva visti passare insieme il guado della giovinezza, e insieme crescere in quella città di scogli e di cielo, dove anche la scrittura sembrava un dono degli dei, un modo per raccontare la sensualità e l'oscenità dei tempi. Me lo ricordo, Zermo, quando bambino mi ritrovavo anch'io in mezzo a quegli scogli ad ascoltare le chiacchiere degli adulti, i languori e le sfide, e poi mio padre che si distraeva dai suoi amici e mi tirava per un braccio, dai, vediamo se sai arrivare allo scoglio, e a me quello scoglio sembrava talmente lontano, la fine del mare, la fine di ogni mondo, finché sentivo lo sguardo di mio padre incollato sulle mie spalle magre, sulle scapole affilate, e mi pareva una cosa da vili rinunciare a quello scoglio, fosse pure alla fine del mondo, fosse pure l'ultima cosa da fare.
Insomma, mi vennero in mente quel mare, quelle giornate piene di luce e delle loro parole da adulti, mi vennero in mente tutte quelle cose minime e inutili che non erano più né presente né ricordo ma un passato definitivo, una goccia di vernice in fondo ai pensieri, mi venne in mente tutto questo quando mi ritrovai in mano l'articolo di Zermo in cui si sosteneva che la morte di mio padre era una cosa, come dire?, strana, un delitto incomprensibile. Per esempio la pistola con cui Fava era stato ammazzato, un'automatica, una calibro 7.65, e invece Cosa Nostra - diceva l'articolo - non si serve di quei gingilli: sono pistole da signorine, da questioni personali, da rancori privati.
Era falso. Cinque anni prima Boris Giuliano, il capo della squadra mobile di Palermo, era stato ammazzato da Leoluca Bagarella alla stessa maniera: cinque colpi di 7.65 alla testa mentre si beveva il suo ultimo caffè. Ma quel modo di ragionare ad alta voce su presunte incongruenze era solo l'inizio, il primo rintocco di uno strumento che avvisava gli altri, che indicava la strada. Dopo “La Sicilia” toccò ai padroni della politica, ai tromboni della cultura domestica, ai lacchè di palazzo, ai poliziotti corrotti, ai giudici sprovveduti, agli avvocati dei mafiosi, in un carnevale di dubbi, di teste che si scuotevano, di parole che non sapevano spiegare.
Cominciò il sindaco, tale Angelo Munzone, umile servitore democristiano di padroni più illustri: «La mafia? È ormai dovunque, nel mondo: ma qui, a Catania, no. Lo escludo». Gli si affiancò subito Nino Drago, il compare di Salvo Lima in questa parte della Sicilia: «Mi auguro che i magistrati chiudano rapidamente questa indagine per ridare serenità alle attività pubbliche e alle attività economiche della città. Altrimenti possono succedere cose gravi». Cose gravi: se s'insiste a evocare la mafia, se si mette in relazione quest'omicidio con le stramberie che il morto scriveva, con le sue requisitorie contro i cavalieri dell'apocalisse mafiosa. «I cavalieri sono da tempo criminalizzati. Hanno costruito in quarant'anni veri imperi economici, ma hanno dato notevoli occasioni di lavoro alla città... Abbiamo avuto contatti personali. E questo ci hanno detto: che vogliono andarsene».
Ma sì, chiudiamo alla svelta l'inchiesta: anzi no, lasciamola aperta affinché marcisca e si riempia di miasmi, di racconti fasulli, di insinuazioni. A chi interessa parlare di mafia in una città educata a ragionar d'altro? Perché affannarsi su quel morto? Perché portargli solidarietà? Lo pensarono il sindacato e l'Ordine dei giornalisti: e ai funerali di Fava non si fecero vedere. Lo pensò la Procura della Repubblica e chiese, per firma del signor procuratore, di indagare sulla vita privata della vittima, sulla sua famiglia, sui suoi poveri denari. Lo pensò la squadra mobile e si mise a interrogare uno a uno i giornalisti dei Siciliani chiedendo a ciascuno di loro di confessare il torbido: è una storia di donne, vero? Minorenni, debiti di gioco, ricatti: e voi sapevate tutto, vero? Lo pensò il procuratore generale quando inaugurò l'anno giudiziario una settimana dopo quel delitto, e si strinse nella sua pelliccia d'ermellino, inforcò gli occhiali e infine spiegò che nel distretto giudiziario di Catania non vi era stato alcun episodio di criminalità mafiosa. Scusi, procuratore: ma allora, Giuseppe Fava? Il suo giornale? Le cose che scriveva? Stiamo cercando altrove, spiegò il procuratore. E “La Sicilia” il giorno seguente ci fece il titolo: «Omicidio Fava, non si tralascia alcuna pista». Altro che mafia, altro che Santapaola.
Alla fine indagarono solo su noi famigliari. I nostri telefoni furono messi sotto controllo per mesi, i nostri conti rivoltati come calzini. Non trovarono nulla: ma non aveva alcuna importanza. L'obiettivo era consumare quel tempo, lasciare che si sfilacciasse in cento ipotesi e che intanto il buon nome della città e dei suoi padroni venisse custodito al riparo da sguardi lunghi, da domande sgarbate. Dieci anni dopo trovarono il nome di quel procuratore della Repubblica, Giulio Cesare Di Natale, in un appunto tra le carte di Nitto Santapaola. Era un brogliaccio in cui il capomafia s'era annotato i piccioli che aveva distribuito per ricompensare i suoi protettori.
Dieci anni dopo. Scriverlo adesso è facile. Non lo era affatto quando ci stavi in mezzo, in quegli anni. E l'unico rimedio ai rischi dell'abitudine era prender nota scrupolosamente di ogni menzogna, di ogni ipocrisia, di ogni volgarità. Fu così che mi tornò alla memoria, molti anni più tardi, l'articolo con cui Zermo aveva aperto la stagione di caccia, quel suo candido stupore per la calibro 7.65 in un delitto che si dice di mafia. Me ne ricordai quando chiusero l'inchiesta e mi ritrovai davanti i referti dell'autopsia: pensai che l'avrei voluto accanto a me, Zermo, in quel momento, a riempirsi anche lui lo sguardo con lo scempio che pallottole di calibro così modesto avevano prodotto nella testa di mio padre, avrei voluto che mi spiegasse di nuovo la sua teoria sulla balistica e sulla mafia, senza staccare gli occhi da quelle foto, da quel corpo raschiato dentro e fuori dalle pistolettate del sicario, e che davanti a quelle immagini mi ripetesse le menzogne che aveva scritto: “Che c’entra la mafia? Che c’entra con Catania? Che c’entra con Pippo Fava?”.
Invece ero solo quel giorno. Io e quelle foto.
Non è la mia storia: è la nostra storia…

da I Disarmati, Sperling & Kuipfer, 2008

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