14.9.12

Francesco Guccini. Cantare in piedi (Michele Fumagallo)

Di tempo ne è passato da quando il demone della vocazione musicale si impossessò di Francesco Guccini, modenese, classe 1939. Fu precisamente nel 1957 in un pomeriggio passato con gli amici al cinema. È lui stesso a raccontarlo: «Era un film dove quattro ragazzi vincevano un concorso per andare a suonare l'estate in un campo di duemila ragazze scout. Fuori dal cinema abbiamo deciso: 'Ragazzi, mettiamo su un complesso'. Nessuno di noi sapeva suonare».
Su Guccini si è scritto tanto e sembra sempre che non ci sia nulla da aggiungere. Invece non è così. C'è una foto che colpisce, tra le tante, nell'interessante volume Francesco Guccini in concerto, scritto a quattro mani da Claudio Sassi e Odoardo Semellini, per l'editore Giunti (pagine 256, euro 16,50). È quella di una copertina del 1978 di “Grand Hotel”, la rivista del fotoromanzo italiano. C'è un Guccini con barba e capelli lunghi, magro, che guarda spavaldo con occhi di sfida.
Il titolo è: «Guccini, il padre che tutti i giovanissimi avrebbero voluto avere». Ecco, questa copertina è all'origine di una delle contestazioni al cantautore fatta da un militante dell'autonomia a Roma, al Gianicolo, a un concerto davanti a 50 mila persone. La cosa bellissima, esempio fulminante di ironia e capacità di capovolgere la situazione a suo favore, è che, all'invettiva dell'autonomo che aveva preso in mano il microfono e apostrofava il cantante, citando quella copertina e pensando di demolirlo, in questo modo: «Guardate, è questo il vostro idolo!», Guccini rispose: «Perché non avete ancora letto il prossimo numero: 'Ridammi mio figlio, grida Liz Taylor a Francesco Guccini' ». Così una risata fragorosa della folla seppellì quella contestazione. E Guccini
ne uscì vincente.
Così come capiterà spesso grazie alla sua ironia, vera arma vincente. Il volume arricchisce la vita e l'arte di Francesco Guccini di notizie anche inedite che mettono a nudo il personaggio, oltre che elencare minuziosamente gli incontri musicali tenuti nella sua ormai più che cinquantennale carriera. Ma non si pensi a un arido elenco dei suoi concerti: la cosa che colpisce, leggendo il libro che si inserisce bene nel solco segnato dall'autobiografia di Guccini edita nella stessa collana di Giunti nel 2007 Portavo allora un eskimo innocente, è la curiosità che prende, a ogni tournée e a ogni capitolo, di saperne di più per il piacere di scoprire le cose e le notizie di un autore di cui si pensava ormai di conoscere tutto. Invece viene fuori la ricerca minuziosa che i due autori hanno condotto attraverso manifesti, locandine, ritagli di giornale, memorabilia; aggiunti alle testimonianze di amici, da quelli della giovinezza modenese, a quelli che hanno lavorato e suonato con lui (Juan Flaco Biondini, Deborah Kooperman, Ellade Bandini), agli altri musicisti che lo hanno accompagnato nel tempo, insomma ai tanti amici di una vita. E se la sua carriera può dividersi nettamente soltanto per lo studioso (dapprima le osterie e i locali popolari e di nicchia, dopo i concerti di massa: lo spartiacque è nel biennio 1975-1976), giacché la sua originale esibizione in qualsiasi luogo ha una linea di unione che mantiene insieme sia l'Osteria delle Dame di Bologna a inizio carriera che lo stadio del grande concerto nell'epoca della maturità, non si pensi che Guccini sia stato fermo e abbia in qualche modo vissuto di rendita del successo delle sue prime canzoni. Colpisce in lui la capacità di spiazzare con la sua cultura ricchissima, anche se resta il cantante che ha più capacità di unire cultura alta e bassa, capace di attraversare non solo la musica ma il giornalismo (seguì come cronista una delle prime edizioni del Premio Tenco), la letteratura (è autore di romanzi, racconti), il cinema (il film Bologna. Fantasia, ma non troppo, per violino di Gianfranco Mingozzi, primo film, di tanti a venire, in cui appare nei panni del cantautore Giulio Cesare Croce), i fumetti (collaborazione col disegnatore Magnus, quello di Satanik, Kriminal e Alan Ford), e persino la linguistica (è autore di un dizionario del dialetto del suo borgo, Pàvana). Del resto, nelle tante testimonianza raccolte in questo libro, l'eterno ritorno a se stesso è presente nella memoria di molti suoi amici e sodali. Racconta Deborah Kooperman: «Anche in un palasport con tremila persone riusciva a creare un'atmosfera da osteria».
E Guccini è stato anche un recordman di concerti, come ricorda una colonna del Club Tenco, Enrico De Angelis: «Tra il 1976 e il 1977 organizzai a Verona, al Teatro Laboratorio, una rassegna di cantautori col marchio del Club Tenco. Il posto era una ex stazione di funicolare convertita in teatro. Bene, io chiamai Guccini e, siccome il locale era piccolino e ci stavano solo centocinquanta persone, riuscii a fargli fare, per la prima e ultima volta nella sua vita, quattro spettacoli di seguito. Record assoluto. Una cosa che non è mai più successa!». Ma la sua carriera è stata anche ricca di avvenimenti, di cambiamenti, di attraversamenti di periodi storici diversi, a dispetto dell'affetto che i suoi fan hanno avuto troppo spesso per le stesse canzoni divenute nel frattempo mitiche (Auschwitz, Canzone per un'amica, Via Paolo Fabbri 43 e via dicendo).
Ma come è cambiato dunque Guccini nel tempo? Enrico De Angelis ha un'idea del tutto convincente oltre che originale: «C'è uno spartiacque: è il momento in cui Francesco decide di cantare in piedi. Non è solo un mutamento estetico o teatrale, è che cambia proprio tutto. È stata una decisione tormentata: ricordo che chiedeva un parere a tutti, anche a me. Lo avevamo visto sempre seduto, con la chitarra, al massimo vicino a un chitarrista. Poi è arrivato il gruppo, ma per il mondo Guccini era quello che restava seduto, con la bottiglia di vino accanto, e si chinava sulla sua chitarra. Ebbene, un giorno ha deciso di cantare in piedi ed è stata una cosa rivoluzionaria per lui. All'inizio era impacciato, ovviamente, perché non sapeva bene dove mettere le mani, grande e grosso com'era. Era incerto e chiedeva lumi un po' a tutti. Dopo l'esibizione venne da me e mi chiese: 'Cosa ne dici se sto così? Come è andata?'. Da allora ha sempre cantato in piedi».
Francesco Guccini è stato anche il cantautore in cui privato e pubblico si sono andati mescolando in modo del tutto naturale. L'inizio degli anni Novanta è un'altra data spartiacque per Francesco. Il privato e il pubblico si intrecciano in una visione del futuro che sta per venire, preannunciando gli anni di decadenza estrema che vivrà poi la sinistra politica e sociale e l'imbarbarimento della vita privata e quotidiana.
Ma sentiamo dalla sua viva voce: «Battezzai gli anni novanta con la negazione di 'Quelli che non'. Una negazione che tutti hanno definito montaliana e che, invece, è più semplicemente, lo sfogo di uno che scopre di vivere con una persona che non lo considera più molto. Nel brano che dà il titolo all'album, la coppia non esiste, è dissolta, sparita, non è più niente. L'io narrante si rivolge a un'interlocutrice, come spesso accade nelle mie canzoni. La dissoluzione del rapporto emerge da una serie di immagini secche che, in apparenza, non hanno molto a che fare con il rapporto di coppia e che si sovrappongono l'una all'altra. Era un momento mio di grandi incertezze. Nonostante si trattasse di una questione privata, sotto c'era anche, per vie oblique, tutto il malessere delle sinistre, in evidente crisi di identità. Credo che entrambi i disamori si siano influenzati a vicenda». Passano gli anni e ormai Guccini si appresta a raccogliere la quarta generazione di giovani, sempre attratti dalle sue canzoni. È una sorpresa soltanto per chi non conosce la sua vitalità, il suo modo ironico di porsi, la sua capacità di rinnovarsi. E la sua umiltà.
Del resto come può tramontare uno che commenta un suo antico cavallo di battaglia richiesto sempre a gran voce, nonostante la simpatica demolizione di Rino Gaetano in Nun te reggae più, in questo modo in un concerto tra un mare di giovani: «A volte mi chiedo come Auschwitz, che ho scritto nel 1964, piaccia ancora così tanto e appaia sempre attuale. Purtroppo il merito non è mio, ma degli sponsor del brano, cioè i razzisti e gli imbecilli, che a quanto pare tornano periodicamente alla ribalta».

“alias” 17 settembre 2011

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