5.9.12

Hemingway. "L'ho conosciuto a L'Avana e non mi è piaciuto" (Alvar González-Palacios)

Nel numero del 6 agosto 2011, che dedica molte pagine al cinquantenario di Hemingway,“alias”, il magazine culturale del “manifesto” pubblica anche un intervento fortemente antipatizzante, un "controcanto" di Alvar González-Palacios, il raffinatissimo storico delle arti applicate, allievo di Longhi. 
Costui, figlio di una grande famiglia cubana, ostile a Castro per ragioni estetiche oltre che sociali, dall'isola caraibica ove si era svolto l'incontro con lo scrittore statunitense di cui narra,  si traferì in Italia sul finire degli anni Cinquanta, assai giovane . (S.L.L.)
1955. Ernest Hemingway con  Spencer Tracy
alla "Floridita", il celebre bar dell'Avana
Moltissimo tempo fa mi capitò di incontrare Ernest Hemingway; vivevo ancora nella mia città, L’Avana, e non avevo vent’anni. Non so più da chi gli fui presentato ma ricordo bene l’uomo e soprattutto il suo volto e l’aura che lo circondava.
La sua faccia squadrata era ben protetta da una barba nera e bianca ma lo sguardo era velato dagli occhiali, aveva più forza che autorevolezza. Sembrava un giornalista a caccia di notizie, più seccato che interessato a quel che sentiva; vagamente sensuale, un po’ ambiguo. Si diceva che beveva molto e quella sera (o furono due?) gli piacque molto quel che gli offrivano – rum bianco, zucchero, limone, ghiaccio tritato – e mandò giù con gran disinvoltura una dozzina di Daiquirì. Faceva il he man ma non appariva più virile di Gertrude Stein, sua amica non sempre devota, nella Parigi degli anni trenta. Hemingway sembrava impersonare un ruolo – un regista cinematografico, un inviato speciale in tempo di guerra, un leone ruggente. O forse avevo deciso io di vederlo così come volevano il tempo e le circostanze.
Gli scrittori e gli intellettuali cubani (eravamo alla fine del 1954 o ai primi del 1957 – nel ’55 e nel ’56 ero vissuto in Europa) erano troppo preziosi per farsi incantare dallo stile tra il rude e il kitsch di Hemingway. Lezama Lima (che vedevo spesso, Troccadero, 102, bajos) lo detestava; Chacòn y Calvo non sapeva bene chi fosse.
Ma dove mi trovavo quelle due sere che incontrai Hemingway? In un bar certamente, non al Dirty Dick, dove non avrei mai avuto il coraggio di entrare, forse a La bodeguita del medio o al Floridita.
Fra un rum e l’altro, parlava di toros, di corridas, della guerra di Spagna, del ’36, di Picasso, ma quando mi avventurai a chiedergli se fosse stato amico di Scott Fitzgerald fece finta di non sentire. Avrei preferito mille volte conoscere Fitzgerald che mi sembrava allora (e mi sembra anche oggi) un vero poeta, il migliore scrittore americano della sua epoca. Ma Fitzgerald era morto da molti anni e, come qualcuno scrisse alla sua morte, «il tempo come ogni fattore morale cambia istantaneamente volto ed espressione». Mi toccò così incontrare non chi volevo ma chi potevo.
Non mi piacque la persona così come non mi era piaciuto quello che scriveva. Non lo vidi più
lungo gli anni – non molti – che gli restavano su questo pianeta e da quella sera del ’54 ho letto soltanto una sua novella, Il vecchio e il mare.
Il mare di Hemingway non è il mare di Melville. So di avere torto a scrivere così brutalmente quel che sento e forse quello che penso: me lo dice un vecchio amico che ha un grande gusto letterario, Piero Gelli.
Sono passati molti anni ancora da quando, dall’altra sponda dell’Atlantico, vidi alcune foto di Hemingway a Cuba accanto ad un he man più giovane, con la barba nera, in uniforme tutti e due. E poi la fucilata (sempre armi e bottiglie e animali morti), il suicidio. E poi il museo e le foto di quelle tristi stanze a Cojìmar con la sua macchina da scrivere sgangherata e arrugginita come l’esercito di he men che frequentava quasi come chi va alle corridas.
Ma almeno lui è riuscito a morire prima di diventare ridicolo e forse ci ha lasciato qualche bel libro.

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