10.9.12

La Rivoluzione francese, festa o no? (di Franco Fortini)

Non contenti di distribuire ogni giorno gli psicofarmaci della impossibilità-a-far-qualunque-cosa e di ogni-visione-del-mondo-è-falsa-e-dunque-teniamoci-le-cose-come-stanno, vogliono darci ad intendere che la R.F. (Rivoluzione Francese) è una buona occasione per acquistare seminuovi tanti classici della ragion pratica, della morale senza sanzioni, dell'empirismo, illuminismo, liberalismo, utilitarismo, ragionevolezza e buon senso. E anche per prevenire eccessi di fraternità, perniciose aspirazioni all'eguaglianza e alla libertà; che, come sappiamo, è quasi sempre malintesa.
Non ci fosse stato Rousseau (lo diceva anche il povero Gavroche; ma ai giovani bisogna spiegargli chi era), se gli emigrati avessero vinto a Valmy (1792) e gli inglesi a Tolone (1793), il mondo si sarebbe risparmiato non solo Robespierre ma Lenin, Stalin, Mao. Aggiungono Hitler e il Duce perché serve all'«amalgama»; nozione e parola propria dei processi sous la Terreur. La Borsa sarebbe eternamente al rialzo, teologi irrispettosi non addolorerebbero il Papa, quelli dell'Alfa di Arese si rassegnerebbero, come cameriere filippine, a non pretendere tutela sindacale.
La polemica contro la R.F. (mai interrotta, lungo tutto l'Ottocento, ai massimi livelli: Chateaubriand, De Maistre, Manzoni, Donoso Cortés) oggi è condotta in tutto il mondo con studi severi e raffinati.
Ogni contributo reca, o dovrebbe, la discussione delle tesi antecedenti o avverse. Gli sbracati (che non sempre sono i sanculotti) vi sono accompagnati alla porta. Col che non sostengo che solo gli specialisti abbiano diritto di parlare. Ma chi come fonte del proprio sapere ha solo un normale manuale di storia delle scuole superiori non sempre si rende conto che sui giornali o in Tv spesso sì parla male di Robespierre per parlar male di Lenin e male di Lenin per parlar bene dei ministri in carica.
Un linguaggio aggressivo e assertivo mal si adatta alla ragionevolezza, e al rispetto per l'opinione altrui. Certi articolisti, piccoli Marat, vogliono conquistare le menti proprio con i metodi che deplorano nei rivoluzionari. Leggo di «mostruoso errore» che starebbe alla base della R.F., di «pensiero politico nefasto» da cui sarebbero sgorgati tutti gli orrori della rivoluzione sovietica e di ogni altra rivoluzione, fino a Khomeini e che i francesi non hanno capito, che, poveretti, non gli è nemmeno passato per la mente, che, nella loro «ossessione per l'unanimità» (?) non sono stati capaci di darsi una costituzione (e questo è falso) né ad insegnarci come si difende la libertà. Si vorrebbe appena sorridere, come si fa agli enunciati dei bimbi. Ma il sorriso ci lascia subito: la rozzezza di quel linguaggio non è affatto dei loro autori (creature gentili, probabilmente, e civili). E' un calcolato effetto di disprezzo per lettori che amano venir disprezzati; tale pratica retorica ha a che fare con l'illuminismo come Voltaire con l'oratoria di Le Pen.
Si attacca oggi da noi (e da un decennio in Francia) un remoto periodo storico che vide l'ascesa al potere della borghesia nell'Europa continentale. Perché spettro di rivoluzioni minacciose? Ma non è più vero da almeno trenta o quarant'anni. Quella borghesia ha cessato di esistere, lo dicono (sebbene in altri momenti) anche i nostri dottori in Facilità; non distrutta solo dalle rivoluzioni socialiste ma consunta dalla fase presente del modo di produrre e consumare.
Chi oggi invita a non festeggiare il bicentenario della R.F. non si limita dunque a favoleggiare di una rivoluzione «buona» separata da una «cattiva» o dei bravi americani del 1775 (zitto sulla loro Guerra di Secessione, che fece più morti di tre R.F.) e dei sereni liberali europei (massacratori di proletariati nazionali e di popoli coloniali) da opporre ai sanguinari giacobini. E' solo un difensore dello stato presente delle cose. Non vuole che tale stato cambi. Ci vive benissimo o semmai con qualche trascurabile noia.
La classe dirigente non è più quella che, vergognandosi dei nonni che avevano inzuppato il proprio pane nel sangue del Terrore, mandò i figli nelle scuole volute dalla Rivoluzione e dall'Impero. Oggi mangia cereali e i figli li manda, se li prendono, al Mit. Neanche le classi subalterne sono, almeno in gran parte, quelle di allora. Chi scredita oggi la R.F., più che di riscrivere la storia della borghesia, si propone di persuaderci che la storia è solo una galleria di pazzie, allegorie del Nulla, sullo sfondo del Sempre-Eguale. Smercia psicofarmaci.
Il mio titolo non si rivolge dunque al medesimo pubblico di chi esorta a fare il contrario. Non tutti sono invitati alla festa. La storia non è eguale per tutti. Criticando i divulgatori di quelle che ritengo ideologie pessime, non mi piace farmi divulgatore delle mie. Però è un terreno che non ho scelto. Rispondere altrove sarebbe stato a me più facile, a voi meno utile.

“Corriere della Sera”, 3 febbraio 1989

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