10.9.12

“Mal di Apollinaire”. Un libro di Paris sul poeta francese e sulla sua banda (di Enzo Di Mauro)



Guillaume Apollinaire

C’è qualcosa di meno evidente e di più sotterraneo, che va oltre l’ammirazione per quel poeta inaugurale ed eternamente giovane e per la sua opera, o qualcosa, se vogliamo una traccia profonda, che non si lascia sopprimere dall’attraversamento di una biografia a rotta di collo e senza un attimo di respiro, nel libro che Renzo Paris ha voluto dedicare a Guillaume Apollinaire. Lo potremmo definire un ritmo psichico. Oppure, ancora, una luce a raggi infrarossi che ci rimanda, mentre leggiamo di un destino, il sogno (come fosse un’ombra cinese) di un altro destino, la contemplazione dolorosa di un desiderio resistente agli anni, all’età matura, alla deludente piega del tempo.
Così, ad esempio, pressappoco a metà del cammino, nella parte centrale del suo La banda Apollinaire (Hacca, pp. 265, € 14,00), Paris si trova a toccare, direi inevitabilmente, una questione che lo rappresenta da sempre, quasi un vessillo, comunque un segnale di riconoscimento. Egli scrive, a un certo punto, che con Le undicimila verghe «iniziava nel segno di Freud il romanzo generazionale che occuperà gran parte del Novecento e quel romanzo doveva scriverlo proprio un poeta, come accadrà più tardi alla beat generation di Kerouac con On the road o all’isolato Salinger con il suo Il giovane Holden o, aggiunge a seguire, come nel secolo scorso era successo con Le ultime lettere di Jacopo Ortis e con i libri di Alfred De Musset.
A noi lettori, da qui, basterà poco per spostare lo sguardo in avanti e pensare a Cani sciolti, a La vita personale e alle poesie di Album di famiglia, solo alcuni dei titoli che indicano la dedizione assoluta e totale di Paris alla propria generazione, ai compagni di strada, agli immediati maestri. Nozione che per lui ha il valore di una poetica, nonché di una mitologia che continua ad autoalimentarsi, in una sorta di romanzo senza trama, aperto e inclusivo. Sotto tale aspetto, Apollinaire è l’emblema più pertinente e schietto per uno scrittore che non smette di comminare puntando pur sempre a una eterna aurora ch’egli sa, tuttavia, illusoria.
Paris, in ogni caso, ha bisogno di accompagnare il suo soggetto passo a passo, con lieta andatura e con struggimento, il suo formidabile soggetto. Ne segue le orme con affetto e puntiglio persino toponomastico, strada per strada, piazza per piazza, città per città, da Roma (dove venne al mondo il
25 agosto del 1880 e dove visse per i primi sette anni) al Principato di Monaco, da Nizza a Cannes
e a Parigi, quasi sentisse il bisogno di respirare quella medesima aria, quel clima, quell’atmosfera. Come se non avessero, le molte stagioni trascorse, trasformato o cancellato tutto. E non che lo scrittore abruzzese, di questo pellegrinaggio, non misuri la carenza di riscontri, lo spreco dello slancio o non veda anche la smerigliata opacità che al dunque gli nega il miracolo di un esoterico incontro o di una sorprendente visione. La delusione e lo sconforto lo minacciano di frequente, ma invano – perché Paris quei giovani poeti, quegli artisti, quei ragazzi scapestrati e vibranti se li porta nel cuore.
Ecco, allora, passare in queste pagine le figure che stanno al centro della vita di Apollinaire, prima tra tutte la madre, l’avventuriera polacca Angelica de Kostrowitzky, «sempre elegantissima, con capelli da sciantosa», frequentatrice di ambienti dell’alta borghesia ed ecclesiastici, di case da gioco e, all’occorrenza, dei bordelli di via dei Capocci, nel quartiere romano di Monti, la stessa che, trentotto anni dopo, accompagnando al cimitero di Père-Lachaise il feretro del figlio, cercava di convincere i presenti – tra cui Savinio, Severini, Ungaretti, De Chirico, Max Jacob, André Salmon e Picasso – che quel giovane prematuramente scomparso era soltanto un fannullone e non un poeta.
La donna condurrà poi il poeta ancora adolescente a Monaco, località prediletta agli amanti del gioco d’azzardo, e sarà qui, secondo la cervellotica ipotesi del reazionario Barrès e dei suoi seguaci ricordata da Paris, che Apollinaire «avrebbe succhiato il latte del cinismo e della pornografia». Invece, pare che in quegli anni di collegio il futuro autore di Alcools e di Calligrammes amasse leggere a rotta di collo tantissimi romanzi cavallereschi – e da qui la predisposizione alle passioni e alle relazioni pericolose, quasi sempre insoddisfacenti e infelici (molti i nomi che si rincorrono: da Marie Dubois a Linda de Molina, da Annie Playden a una certa Jeanne, dalla più celebre Marie Laurencin alla contessa Louise de Coligny-Châtillon detta Loulou, alla quale spedì una serie di lettere memorabili di incendiato desiderio, dall’insegnante maghrebina Madeleine Pagès ad Amelie Kolb detta Jacqueline, che finirà per sposare nel 1918, poco prima della morte).
«Mal di Apollinaire»: questa è il nome della malattia di cui dice di soffrire Paris, che del poeta, ch’egli considera il più grande lirico del Novecento, è stato anche traduttore. Ciò da solo basterebbe a giustificare le ragioni del libro. Ma la motivazione vera, lo accennavo all’inizio, sta in un sottile, costante gioco di specchi, di allusioni e rimandi. C’è l’avvio del secolo, fervido e tempestoso, inciso di leggenda; c’è la «banda», appunto, e «l’amicizia amorosa tra poeti, tra artisti, quella solidarietà immediata tra bohémiens», ed è questo che lo scrittore confessa di avere voluto ritrovare nel suo viaggio, insieme all’«invidiosa competitività»; c’è il perduto ruolo sociale del poeta, sebbene o proprio in forza del fatto che lo stesso Apollinaire poteva sbarcare il lunario «scroccando pranzi e cene ai suoi numerosi amici,ma anche facendosi pagare per le letture di versi, nei lunghi e chiassosi dopocena nelle dimore borghesi, una buona abitudine di una classe illuminata del tutto scomparsa».
Ma c’è, innanzitutto, volendo riassumere e semplificare, la necessità di ritrovare fratelli, così standosene sulla riva di quel fiume a contemplare lo scorrere fresco ed eterno della gioventù, della vita.

“alias” 24/9/2011

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