4.9.12

Romanticismo laterale. Tre racconti di Hemingway (Franco Cordelli)

Ernest Hemingway nel 1923
Caro «Alias», sono in Provenza, per lavoro. La Provenza è per me ricca di memorie e di echi. Nei miei vagabondaggi automobilistici, a ogni breve spostamento ecco la targa Le Thor, ecco René Char e i colloqui che qui organizzava. Oppure, altre targhe: Fontaine-de-Vaucluse e Lycée Petrarque. O, ancora (questi mi sono quasi fratelli), Gaston Bachelard, Henri Bosco, Tarascon (per Alphonse Daudet) e Lawrence Durrell, che venne qui per gli ultimi anni della sua vita e per il Quintetto di Avignone.
Di tanto in tanto, da qualche curva, si scorge il Mont Ventoux, che però non mi suscita pensieri letterari. Ci sono stato due volte in pellegrinaggio, c’è una targa che ricorda la morte del campione del mondo Tommy Simpson, il corridore ciclista…
La sorpresa di questa estate l’ho trovata a Châteaurenard. Naturalmente sapevo che ad Arles, o a Nîmes, si allestiscono corride. A Châteaurenard ne era annunciata una per domenica 17 e gli spettatori vi avrebbero trovato quelli che vengono oggi considerati i primi toreri di Spagna. Non dunque una corrida per turisti, ma una corrida vera: El Juli, Alejandro Talavante e Ramon Perez sono veri e grandi matador.
Ma non voglio raccontarvi le mie traversie per accedere alla corrida, non ne avevo mai visto una; né voglio parlare delle mie reazioni; né delle reazioni suscitate tra quelli con cui, sùbito dopo, ne ho discusso. Non immaginavo che la corrida accendesse gli animi. Per fortuna ho qui con me qualche libro adatto all’occasione, e giusto per voi. Così ho subito riletto, dai Quarantanove racconti, «L’invitto»: storia di un vecchio torero che si rivolge a un impresario come un vecchio pugile lo avrebbe fatto fino a venti o trent’anni fa, testardo e malinconico. Vuole a tutti i costi tornare nell’arena. Per lui, anche se ne è stato messo a dura prova – è appena uscito dall’ospedale – non c’è che il toro (come più tardi, nelle sue confessioni, il corno che sempre per se stessa pretenderà la tauromachia di Michel Leiris). La descrizione del ritorno dell’«invitto» è degna del più puntiglioso e migliore Hemingway.
Mi chiedo semmai che parentela ci sia tra inarrendevoli e perdenti di questa famiglia, e invitti di una famiglia coeva, quella di Faulkner. Credo che l’unica risposta legittima sia in Fitzgerald, che nel suo crackup si immerse non per interposta persona: e il punto cui voglio arrivare è proprio questo, l’interposta persona, ossia l’indiretto, l’obliquo.
Mi ricordo che in un suo saggio famoso Edmund Wilson parlò di una morale hemingwayana e disse, più o meno, che per capirla non bisognava guardare alle persone ma al complesso di sentimenti cui, nei racconti dello scrittore americano, una situazione dà luogo. Ebbene, vorrei ricordarne due, lontani tra loro (forse) nel tempo, «Vecchio al ponte» uscito nel 1938 e «La denuncia» nel 1969, postumo, ma entrambi ambientati negli anni della guerra di Spagna.
In «Vecchio al ponte», durante una ritirata verso Barcellona, il narratore incontra un vecchio seduto
«sul lato della strada». Non vuole andare avanti. Forse non ne ha la forza. Ma la ragione più vera è che lui, che di mestiere ha sempre badato agli animali, è preoccupato per la sorte di quattro paia di piccioni, due capre e un gatto. I piccioni usciranno dalle gabbie, lo rassicura il narratore, e si salveranno; le capre in effetti sono un problema; ma, conclude il narratore, «nel fatto che i gatti sanno sempre badare a se stessi, consisteva tutta la fortuna che quel vecchio potesse aspettarsi di avere».
In «La denuncia», siamo a Madrid nel 1938. Pedro Delgado, un conoscente di quest’altro narratore, ha il privilegio di entrare in un bar di lealisti. Il racconto comincia così: «Una volta, a Madrid, il bar di Chicote era un po’ come lo Stork, senza la musica e le debuttanti, o anche come il men’s bar del Waldorf, se vi avessero ammesso le ragazze. Ci venivano, se è per questo, ma era un locale dalla clientela prevalentemente maschile e le donne non vi godevano di particolare considerazione». Questa è l’atmosfera e Pedro Delgado è un fascista, denunciarlo è un dovere. Però il narratore è uno straniero, dovrà farlo il cameriere. Lo straniero dà al cameriere un numero di telefono e più tardi quel numero lo comporrà lui stesso: pregherà Pepé, del controspionaggio, di dire al fascista che a denunciarlo è stato lui, il vecchio amico, o conoscente, non già il cameriere.
Perché? Perché Pedro Delgado, nonostante il pericolo, aveva avuto la debolezza di entrare nel bar di Chicote che evidentemente amava fino al punto di rischiare. Prima di essere fucilato, racconta Emmunds, «non volevo che si sentisse amareggiato o deluso per colpa dei camerieri» di quel bar.
Come non vedere che il gatto per il vecchio e il bar di Chicote per il fascista Delgado sono come l’arena dell’invitto, sono ciò che c’è di invincibile nella loro vita qualunque? Due valori nulli o, potremmo dire, innominabili come valori in sé. Pure, sono lì. Sono l’anima dei racconti: questo è, direi, il peculiare romanticismo di Hemingway, ma è anche la sua morale stilistica, tipicamente novecentesca, che mai gli permette di porsi, come il torero, in posizione frontale, spada in mano, davanti al toro.
Non è vero, come pensavano i grandi spagnoli, Lorca o Bergamín, che la corrida sia una liturgia antica. O seppure lo è, lo è come anticipo dell’Ottocento, e come Ottocento tardivo. La corrida, indubbiamente, è romantica. Almeno quanto è romantico, lo ripeto, nello spostarsi di lato, il suo lirico osservatore moderno.

"alias" 6 agosto 2011

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