8.10.12

Afghanistan. Storia di un tentato comunismo (di Christian Parenti)

Dall'edizione italiana di "Le Monde diplomatique" di agosto, prodotta dal "manifesto", recupero questo articolo, pieno di particolari ignoti ai più, che aiuta la comprensione di eventi recenti, da leggere - come ogni cosa del resto - cum granu salis. (S.L.L.)
Kabul, Rovine
Rispondendo alle domande sul ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan, previsto nel 2014, l’ambasciatore russo a Kabul non ha potuto fare a meno di ripensare all’esperienza – e agli errori – dell’Unione sovietica negli anni ’80. L'intervento sovietico di trent’anni fa si appoggiava però su un movimento comunista autoctono. Che, insubordinato e diviso, finì per far sprofondare Mosca in un conflitto micidiale.
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Davanti alle sale da tè e sulle bancarelle di Kabul, a volte ci si imbatte nel ritratto di un uomo severo dal viso tondo, che sfoggia baffi e capelli neri.
È quello di Mohammed Najibullah, ultimo presidente comunista del paese. Membro del Partito democratico popolare dell’Afghanistan (People’s Democratic Party of Afghanistan, Pdpa) dalla fine degli anni ’60, aveva diretto a lungo la polizia segreta, prima di essere messo a capo dello stato nel 1986. Dopo il ritiro delle forze sovietiche, nel 1989, Najibullah tiene duro restando al potere per tre anni. Muore per mano dei taleban nel 1996.
Le risposte degli abitanti di Kabul alle domande su questi manifesti e cartoline postali in onore del loro ex dirigente si assomigliano. Per alcuni, «era un presidente forte, avevamo un esercito potente»; per altri, «allora, tutto funzionava bene, Kabul era pulita». Il proprietario di una sala da tè spiega semplicemente che «Najib ha combattuto il Pakistan». Così, quello che viene ricordato non è tanto il «comunista» – un termine vago per molti afghani – quanto il modernizzatore e il patriota.
Per comprendere le ragioni che hanno fatto di Najibullah un tale emblema, bisogna immergersi nuovamente nella storia delle relazioni dell’Unione sovietica con l’Afghanistan. L’interesse dell’Urss per questa regione non risale alla guerra fredda: essa aveva combattuto i ribelli musulmani nelle zone limitrofe dell’Asia centrale fin dagli anni ’20. Nel decennio successivo, aveva schiacciato questi basmaci (banditi) con l’aiuto dell’esercito reale afgano. La stabilità del paese veniva allora percepita come una posta in gioco cruciale per la sicurezza dell’Asia centrale sovietica. A partire dai primi anni ’50, l’Afghanistan è fra i quattro maggiori beneficiari degli aiuti di Mosca, che invia ingegneri e invita migliaia di studenti, di tecnici e di militari per provvedere alla loro formazione.

Alla fine del decennio, anche gli Stati uniti si interessano all’Afghanistan. Si instaura una concorrenza fra le due superpotenze, che rivaleggiano in generosità per «aiutare» la popolazione locale. Gli americani erigono una diga sul fiume Helmand per irrigare e fornire elettricità alle regioni desertiche del sud; i russi costruiscono il tunnel di Salang – uno dei più alti del mondo – per collegare le regioni del nord e quelle del sud. I primi forniscono l’elettronica, i sistemi di comunicazione, e il radar dell’aeroporto di Kabul; i secondi ne realizzano l’infrastruttura.
Contrariamente a quanto verrebbe da pensare, i primi capi dei mujahidin (i partigiani della lotta contro i sovietici), fra cui Ismail Khan, che lanciò la rivolta a Herat nel 1979, erano ex militari formatisi in Urss. E viceversa, una parte degli intellettuali afgani, come il primo ministro Hafizullah Amin, avevano studiato negli Stati uniti prima di diventare militanti comunisti, e poi membri del governo.
Il colpo di stato comunista dell’aprile 1978 appariva come la conseguenza indiretta di una precedente rivolta. A partire dal 1969, in effetti, l’Afghanistan attaversava diversi anni di siccità e di carestia. Quattro anni dopo, la popolazione moriva letteralmente di fame nella provincia di Ghor, al centro del paese. Il generale Mohammed Daud rovescia suo cugino, il re Mohammed Zahir Shah, abolisce la monarchia, quindi instaura un governo repubblicano. Nel 1973 diventa il primo presidente della Repubblica d’Afghanistan.
Una volta al potere, Daud perpetua quella che all’epoca era una politica economica assai diffusa, ricorrendo alla pianificazione e all’investimento pubblico per costruire un settore industriale privato e per creare un mercato interno. Il modo in cui tratta i suoi nemici politici – gli islamici e i comunisti, a loro volta gli uni contro gli altri – unisce la repressione alla cooptazione. Ma l’ostilità crescente nei loro confronti porta alcuni islamici, come il tagiko Ahmed Shah Massoud e il pashtun Gulbuddin Hekmatyar, ad andare in esilio in Pakistan.
È la violenza del regime ad innescare anche gli eventi del 1978, questa «cosa messa in piedi di fretta», come la definisce Jonathan Steele. Il 17 aprile, Mir Akbar Khyber, un membro influente e stimato del Pdpa, viene assassinato per la strada. I sospetti si indirizzano immediatamente verso il governo. Due giorni dopo, il Pdpa organizza una manifestazione di protesta che raduna quasi quindicimila persone e finisce con una retata della polizia. Temendo che questo sia solo un preludio alla loro liquidazione, i militari comunisti attaccano il palazzo presidenziale, uccidono Daud, e prendono il potere. I responsabili sovietici, in particolare quelli della base del Kgb a Kabul, sono presi alla sprovvista. A loro avviso, l’Afghanistan non è maturo per il socialismo più di quanto il Pdpa sia pronto a governare. Il partito è in effetti lacerato tra due fazioni. Il Khalq («Popolo»), la corrente maggioritaria e radicale, ha organizzato il colpo di stato. Essa trae il suo sostegno dalla popolazione che parla pashtun stabilitasi di recente nelle città per trovare lavoro e avere accesso all’istruzione. Frangia minoritaria e moderata, il Parcham («Bandiera») è a sua volta radicato nelle classi medie urbane che parlano il dari. L’inizio del periodo che vede al potere il Khalq è sanguinoso. Quaranta generali e alleati politici di Daud, fra cui due ex primi ministri, vengono giustiziati sommariamente. Fra gli altri imprigionati o assassinati, islamici, maoisti, e persino membri del Parcham. Questa violenza suscita l’inquietudine dei sovietici. Malgrado diverse riforme progressiste – divieto di matrimonio per i minori, riduzione della dote, abolizione delle ipoteche rurali, campagna di alfabetizzazione per gli uomini e le donne (ogni gruppo veniva educato separatamente), riforma agraria, etc. –, alcuni errori di gestione suscitano la reazione brutale di una parte della popolazione.
Saleh Mohammad Zeary, un vecchio funzionario comunista che Steele ha rintracciato in un modesto caseggiato di Londra, spiega la resistenza in questi termini: «All’inizio, i contadini erano felici, ma quando hanno saputo che eravamo comunisti, hanno cambiato atteggiamento. Tutto il mondo era contro di noi. Dicevano che non credevamo nell’Islam, e non avevano torto. Vedevano chiaramente che non pregavamo. Abbiamo liberato le donne dal peso della dote, e loro hanno detto che sostenevamo l’amore libero.» Un altro ex membro del Pdpa, stabilitosi anche lui nella capitale britannica, ricorda che i dirigenti del partito al potere «volevano sradicare l’analfabetismo in cinque anni. Era ridicolo. La riforma agraria non era popolare. Promulgavano decreti spacciati per rivoluzionari che volevano applicare con la forza. La società non era pronta. Il popolo non era stato consultato».
Elaborate nella fretta, le riforme del Pdpa soffrono della vecchia divisione della società afghana fra città e campagne. I giovani cittadini idealisti e istruiti non capiscono il mondo rurale e desiderano rimodellarlo, mentre gli abitanti dei villaggi dai muri di fango non mostrano alcuna simpatia per la burocrazia urbana. Che la portata sociale e culturale delle riforme sia stata avversata perché minacciava i privilegi dei mullah, dei malik (capi villaggio) e dei grandi proprietari non sorprende affatto; che lo siano stati anche gli aspetti economici progressisti del programma, e da parte di una popolazione rurale profondamente religiosa, rappresenta una cosa ben più inquietante.
Benché povero e caratterizzato da disuguaglianze sociali, l’Afghanistan degli anni ’70 non soffre della concentrazione agraria che caratterizzava, ad esempio, la Cina e il Messico pre-rivoluzionari. Come spiega Steele, i contadini avevano spesso «legami religiosi, di clan, e familiari con i loro proprietari, e non erano pronti a trasgredirne l’autorità». La società rurale, che ha sempre goduto di una certa autonomia nei confronti di Kabul, si sente minacciata. Essa si orienta sempre più verso la resistenza armata, unendosi ai partiti islamici che erano fuggiti in Pakistan durante la repressione orchestrata da Daud.
Alcuni errori tecnici inaspriscono ulteriormente la situazione per il Pdpa. Nella loro fretta, i comunisti di Kabul ridistribuiscono la terra, ma non l’acqua: uno sbaglio che rivela la loro ignoranza dell’agricoltura locale. Aboliscono il sistema dei prestiti finanziari iniqui dei bazar, ma non mettono in piedi un programma di credito alternativo per aiutare i contadini a corto di liquidi. Dal canto loro, i sovietici invitano ripetutamente Kabul ad abbandonare o a rinviare le riforme più radicali.
I comunisti non sono i primi modernizzatori afghani a conoscere delusioni. Il «principe rosso», Amanullah Kahn, che aveva cacciato gli inglesi nel 1919, venne detronizzato dieci anni dopo da una ribellione tribale contraria alla sua politica di modernizzazione d’ispirazione kemalista. Aveva imposto un minimo di riforma agraria, dato il diritto di voto alle donne, e iniziato a dare un’istruzione alle ragazze. Le élite rurali avevano apprezzato le belle strade, ma non le tasse per finanziarle; la gente delle campagne aveva accettato i miglioramenti dell’agricoltura e l’istruzione, ma non l’assalto contro il sistema patriarcale.
Cinquant’anni dopo, il Pdpa si trova di fronte lo stesso tipo di resistenza religiosa. Per tentare di domarla, i responsabili comunisti non esitano a manifestare – almeno in pubblico – una improvvisa devozione, pregando e andando in moschea. Sforzi tardivi e insufficienti: nel marzo 1979, gli ufficiali islamici di Herat si ribellano, senza dubbio ispirati dalla rivoluzione iraniana – un mese prima, lo scià fuggiva dall’Iran e l’imam Ruhollah Khomeini faceva ritorno a Tehran.
La rivolta e la sua repressione militare, alla quale presero parte piloti sovietici, non sono state così sanguinose come spesso si è detto. «Anche se la stampa e alcuni storici occidentali continuano a sostenere che i ribelli hanno massacrato fino a un centinaio di cittadini sovietici residenti a Herat – afferma Rodric Braithwaite –, le vittime sovietiche non sembra siano state in tutto più di tre». Quanto al bombardamento a tappeto della città da parte del governo comunista, neanch’esso ha fatto migliaia di vittime.
Dopo Herat, si ammutinano altre guarnigioni. I sovietici inviano nuovi consiglieri in Afghanistan e iniziano a elaborare un piano per schierare le loro forze di terra. Dall’estate, gli Stati Uniti forniscono soldi e armi ai mujahidin per preparare assalti contro le forze governative e le infrastrutture pubbliche a partire dal Pakistan. In questo periodo, il conflitto in seno al Pdpa si aggrava: le divergenze personali e ideologiche provocano scontri fra il Khalq e il Parcham, nonché in seno allo stesso Khalq. Nel settembre 1979, il presidente Nur Mohammad Taraki viene legato a un letto e soffocato con un cuscino: un assassinio ordinato dal primo ministro Hafizullah Amin, suo compagno e rivale all’interno del Khalq. I dignitari sovietici, che consideravano Taraki il più flessibile dei due rivali, sono scandalizzati da questo omicidio. La paranoia si impadronisce del Cremlino, dove si teme che l’assassino sia un agente degli Stati uniti.
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Si tratta di una storia vecchia: negli anni ’60, Amin aveva fatto un dottorato alla Columbia university, a New York, dove dirigeva il sindacato degli studenti afghani, e già si diceva che fosse in combutta con la Central intelligence agency (Cia). Steele fa notare che Amin aveva anche ammesso di aver ricevuto soldi dai servizi segreti americani prima della rivoluzione. Braithwaite riferisce che persino l’ambasciatore degli Stati uniti Adolph Dubs, dopo averlo incontrato più volte, aveva chiesto alla Cia se si trattava di un informatore. Più verosimilmente, Amin non faceva che imboccare la strada seguita da tutti i dirigenti afghani: per governare questo stato-cuscinetto bisognava barcamenarsi fra le grandi potenze.
Durante la crisi del 1979, il governo comunista aveva sollecitato per tredici volte un intervento militare sovietico. A sua volta, Mosca aveva esposto tutte le proprie buone ragioni per non schierare forze di terra. «Abbiamo studiato con attenzione tutti gli aspetti di questa azione e siamo arrivati alla conclusione che, se facessimo intervenire le nostre truppe, non solo la situazione del vostro paese non migliorerebbe, ma si aggraverebbe», aveva dichiarato all’epoca un responsabile sovietico. Ma l’assassinio di Taraki cambia la situazione. Il 40° corpo dell’Armata rossa arriva in Afghanistan nel dicembre 1979 con la missione non di aiutare Amin, ma di assassinarlo. Il 27, le forze speciali sovietiche attaccano il palazzo presidenziale e uccidono il presidente, in carica da soli centoquattro giorni. Il dirigente scelto come sostituto dai sovietici, Babrak Karmal, appartiene all’ala moderata del Pdpa. Ma, al tempo stesso lunatico e paranoico, manifesta un debole per gli alcolici che aggrava ulteriormente la sua incompetenza.
Malgrado l’invio di tecnici e consiglieri civili idealisti da parte di sovietici, Karmal non riesce a conquistare la fedeltà dei musulmani delle campagne, così che la capacità d’azione dello stato resta limitata. A peggiorare le cose, dal luglio 1979, sono gli Stati uniti che armano i sette partiti dei mujahidin, acerrimi nemici del Pdpa. Lautamente finanziata dal governo saudita e alimentata clandestinamente da Washington su iniziativa della Cia, questa assistenza militare viene amministrata dai servizi di intelligence pakistani. Mosca e Washington pensavano che l’intervento sarebbe durato sei mesi, che la popolazione afghana – almeno nelle città – avrebbe riservato una buona accoglienza ai russi e sarebbe stata contenta della fine del governo di Amin. I russi tuttavia si impantanano in una guerra che durerà nove anni.
Molti militari sovietici credono sinceramente nel loro «dovere internazionale» – proprio come alcuni americani percepiscono la loro guerra in Afghanistan come un aiuto salutare fornito a un paese arretrato in preda ad una autentica minaccia terrorista. Come i loro omologhi statunitensi, i soldati sovietici impegnati in Afghanistan appartengono soprattutto alla classe operaia e vengono in maggioranza dalle campagne e dalle piccole città; solo l’aviazione, il Kgb, e le unità mediche possono contare su soldati provenienti dai ceti più favoriti della società russa.
Il vero obiettivo del 40° corpo dell’Amata rossa era quello di conquistare i cuori e le menti. Così non è stato: quando le forze di terra dei governi sovietico e afghano vengono messe in difficoltà dai loro avversari, intervengono l’aviazione e l’artiglieria; e quando i mujahidin sparano dall’interno dei villaggi, questi ultimi vengono bombardati e distrutti. Braithwaite smentisce le accuse sull’utilizzo di armi chimiche o di giocattoli imbottiti di esplosivo da parte dei sovietici: contrariamente a quanto affermava la logica da guerra fredda degli anni ’80, la loro brutalità nei confronti dei civili non costituiva un obiettivo, ma uno degli effetti prevedibili e imperdonabili della loro politica. L’Armata rossa ha processato centinaia di suoi soldati per crimini che vanno dallo stupro all’omicidio, dal consumo di droga al furto. Tuttavia, essa non ha saputo o voluto porre un freno agli abusi del Khad (servizi di intelligence): circa ottomila afghani sono stati giustiziati dal governo del Pdpa e diverse altre migliaia sono stati imprigionati e hanno subito maltrattamenti.
Quando, nel 1985, Mikhail Gorbaciov viene nominato alla guida del Partito comunista dell’Unione sovietica, il potere è convinto della necessità di un ritiro dall’Afghanistan. Una vasta campagna contro la guerra, condotta dalle famiglie dei soldati, dai reduci, e persino da ufficiali in servizio, spinge Mosca in questa direzione. La perestrojka e la glasnost sono nell’aria e, in Afghanistan, Najibullah, che è appena stato nominato presidente della Repubblica, si allontana sempre più dal marxismo-leninismo in favore di un nazionalismo pragmatico. Nel 1988, ribattezza il Pdpa col nome di Watan («Patria»). Alla fine del suo mandato, pensa perfino di affidare il posto di ministro della Difesa al comandante Massoud.
Questi cambiamenti, notevoli dopo l’uscita di scena di Karmal e l’ascesa di Najibullah, sono parte di una politica ufficiale detta «riconciliazione nazionale». Nella sua opera A Long Goodbye, lo storico Artemy Kalinovsky offre una buona panoramica dei suoi aspetti diplomatici. «Dal 1985 al 1987 – scrive –, la politica afghana di Mosca era guidata dalla volontà di mettere fine alla guerra senza subire una disfatta. Gorbaciov era preoccupato quasi quanto i suoi predecessori dei danni che un ritiro frettoloso avrebbe potuto causare al prestigio sovietico, in particolare fra i suoi partner del Terzo mondo. Tuttavia, si era impegnato lo stesso a porre fine alla guerra, e il suo Politburo lo appoggiava in questo senso. Questo implicava la ricerca di nuovi approcci per insediare a Kabul un regime in grado di sopravvivere, anche dopo la partenza delle truppe sovietiche.»
Per avere successo, la politica di «riconciliazione nazionale» ha bisogno della cooperazione degli Stati uniti, principali protettori dei mujahidin. Sfortunatamente per l’Afghanistan e per i sovietici, l’amministrazione Reagan era allora divisa tra i bleeders («sanguisughe») e i dealers («negoziatori»). Il Segretario di stato George Shultz era fra i principali dealers, sostenitori di un compromesso con l’Urss. La loro posizione era semplice: se l’Armata rossa si fosse ritirata dall’Afghanistan, gli Stati uniti avrebbero dovuto smettere di aiutare i mujahidin. Tuttavia i bleeders, assai presenti all’interno della Cia e della «lobby afghana» nel Congresso americano, erano di diverso avviso: condizionavano la fine degli aiuti ai mujahidin al blocco puro e semplice di ogni forma di sostegno sovietico al governo di Najibullah. Furono loro alla fine ad avere la meglio.
Nel febbraio 1989, l’ultimo carro armato sovietico attraversa il Ponte dell’amicizia, a nord del fiume Amu Darya. Tuttavia, Mosca continua ad aiutare Najibullah, e il governo afghano prende tutti di sorpresa quando, nel marzo 1989, le sue truppe, che ormai combattono sole, rompono l’assedio dei mujahidin a Jalalabad, in prossimità della frontiera pakistana. Se gli insorti fossero riusciti a prendere questa città, il loro prossimo obiettivo sarebbe stata Kabul. Ma da allora in poi, i sette partiti mujahidin, malgrado la loro superba tecnica militare, restano frammentati e strategicamente incoerenti.
Secondo Braithwaite, Eduard Shevardnadze, che non voleva essere il primo ministro degli Esteri sovietico a subire una disfatta, fu il più fervente sostenitore di Najibullah. Era convinto che gli afghani avrebbero potuto combattere all’infinito grazie a un flusso di petrolio e di armi proveniente dall’Urss. In effetti, Najibullah riuscì a reggere altri tre anni. Ma, a fine 1991, quando Boris Eltsin estromette Gorbaciov e l’Urss crolla, il flusso vitale degli aiuti s’interrompe.
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La disfatta sovietica in Afghanistan non ha provocato la fine dell’Unione sovietica, come spesso si è pensato. È avvenuto proprio il contrario. Come spiegava di recente il settimanale “The Economist”, «il sistema sovietico è crollato quando i principali responsabili hanno deciso di monetizzare i loro privilegi e di trasformarli in proprietà». Una volta accaduto ciò, con Eltsin al potere, il regime di Najibullah è crollato. Stando a quello che dice Braithwaite, Eltsin, in quanto presidente della Russia, avrebbe stretto contatti segreti con i mujahidin da prima della caduta di Gorbaciov. D’altronde, non appena interrotti i rifornimenti russi, Abdul Rashid Dostum, uno dei principali generali di Najibullah, passava nel campo dei ribelli.
Il presidente alla fine viene rovesciato nell’aprile 1992. Vari gruppi di guerrieri santi e di fanatici etnico-nazionalisti calano su Kabul. Dopo un’esperienza assai breve di governo di coalizione, le fazioni entrano in conflitto, mentre gli ultimi membri del Pdpa fuggono dal paese o entrano in clandestinità. Najibullah tenta di arrivare a Mosca, ma gli uomini di Dostum gli impediscono di raggiungere l’aeroporto.
Nei quattro anni successivi, Kabul sprofonda nella barbarie. I gruppi di mujahidin in lotta sprofondano il paese nelle tenebre, in senso sia proprio che metaforico: i lampioni e le linee elettriche dei filobus vengono saccheggiati; i servizi pubblici smettono di funzionare. I combattimenti tra fazioni radono al suolo metà della città, e si stima in centomila il numero delle persone uccise, in maggioranza civili. Najibullah, dal canto suo, resta rinchiuso in un complesso di edifici delle Nazioni unite. Quando i taleban alla fine prendono la città, nel 1996, catturano l’ex presidente, lo picchiano, lo torturano, e lo evirano prima di fucilarlo. Il suo cadavere viene trascinato per le strade, quindi appeso a un lampione.
Oggi che le forze dell’Organizzazione del trattato dell’At¬lantico del nord (Nato) occupano ormai l’Afghanistan, nelle strade di Kabul si trovano ancora ritratti di Najibullah. Perché? Prima come adesso, la guerra contrappone non solo gli invasori agli afghani, ma anche gli afghani tra di loro: la popolazione delle città, favorevole alla modernizzazione (anche a tappe forzate), e quella delle campagne, contraria al cambiamento.
Altra analogia: ciascuna forza può contare su potenti alleati stranieri. Durante la guerra fredda, i sovietici sostenevano Kabul, mentre gli Stati uniti e il Pakistan appoggiavano i ribelli; oggi, altre preoccupazioni portano gli Stati uniti a difendere gli aspiranti ricostruttori di Kabul (per la maggior parte gli stessi che lavoravano per Najibullah), mentre il Pakistan, vassallo favorito e alleato teorico dell’America, continua a sostenere i ribelli religiosi e tradizionalisti.
Esiste una classe di cittadini afghani per la quale la questione politica centrale è sempre stata: «Non importa l’ideologia, avrò l’elettricità?». Queste persone, che hanno cercato di estendere la giurisdizione di Kabul sulle campagne, si sono trovate, a partire dagli anni ’20, sistematicamente di fronte a un’opposizione violenta. Il loro vessillo fu dapprima la monarchia costituzionale, quindi la repubblica presidenziale, il socialismo alla sovietica, infine il nazionalismo disperato di Najibullah. Ormai, sperimentano la democrazia liberale estremamente imperfetta imposta dalla Nato. Non sorprende quindi che gli ex comunisti siano ancora modernizzatori, e che li si ritrovi ai livelli più alti di quello che porta il nome di governo afghano.
È senza dubbio per tutti questi motivi che ancora si appendono ritratti di «Najib» a Kabul: la sua visione del mondo, nonostante tutte le sue colpe, comprendeva l’elettricità. Ahimé, una conquista che non può essere portata dalla guerra.

“Le monde diplomatique”, agosto 2012

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