4.10.12

Fritz Lang a Hollywood. L'atmosfera americana (di Alberto Rollo)

Fritz Lang
Quando Fritz Lang, nel 1933, abbandona la Germania è un autore indiscutibilmente maturo. Capolavori come Der Mude Tod (Destino, 1921), Dr. Mabuse, der Spiegel (Il dottor Mabuse, 1922), Spione (L'inafferrabile, 1928) e M (M. il mostro di Dussel­dorf, 1931) l'hanno già promosso artista di fama internaziona­le. Si aggiunge inoltre il successo popolare di Die Nibelungen (I nibelunghi, 1924) e di Metropolis (idem, 1927), opere dagli esiti ambigui che furono apprezzate dallo stesso Hitler e che indus­sero Goebbels ad offrire al regista l'incarico di direttore del­l'industria cinematografica tedesca. La rottura con il nazismo avviene proprio in concomitanza con questa offerta e fa si che il celebrato artista di prima si trasformi, subito dopo, in un fuorilegge a cui sono confiscati beni mobili ed immobili.
Dopo una breve parentesi francese che coincide con la rea­lizzazione di Liliom (La leggenda di Liliom, 1934) comincia la stagione americana di Lang. Una stagione che per molti ha si­gnificato la fine del «vero» Lang e l'imporsi di un autore diver­so, di volta in volta schiacciato dalle regole del mercato o, per contro, sensibile lui stesso a un'«estetica popolare» di facile consumo e di grande respiro narrativo.
Che questo sia un luogo comune di cui sono stati vittime molti registi non toglie nulla alla fastidiosa sensazione di tro varsi dinnanzi a una ciclica ottusità nei confronti del cinema e, più complessivamente, della cultura americana.
La Hollywood in cui Lang viene chiamato — David O. Selznick gli fa firmare un contratto per la MGM mentre è an­cora in Europa — è un'industria in fase di espansione, affetta dalle tensioni eroiche e dalle rigidità tipiche del nucleo produt­tivo che non ha ancora conseguito — come accadrà negli anni quaranta — la piena consapevolezza delle proprie potenzialità tecniche e organizzative e al quale non è stata ancora ricono­sciuta l'identità di centro di cultura a tutti gli effetti. Fritz Lang, che pure non sarà tenero con i produttori con cui lavo­rerà, si getta nella mischia del continente «America» con un fervore e una curiosità che trova raramente riscontro in altri colleghi immigrati.
L'esperienza del film spettacolare non gli è estranea, né gli manca quella tensione verso un cinema supernazionale, desti­nato a un pubblico non stratificato che pure aveva tratto in in­ganno se stesso e il nazismo ai tempi di Metropolis e I nibelun­ghi. Gli è chiaro soprattutto un concetto: che la via americana al cinema popolare coincide sostanzialmente con l'America stessa, che Stati Uniti e cinema sono, in quest'ottica, pressoché sinonimi.
Nell'anno che precede il primo capolavoro realizzato fuori dall'Europa, Fury (Furia, 1936), Lang trova il tempo e l'oppor­tunità di penetrare, con tenacia e determinazione, l'universo americano.
Ed è singolare come egli adotti, per farlo, modalità conosci­tive non intellettuali, o comunque inconsuete per un uomo di cultura europea.
«Leggevo soltanto cose scritte in inglese, — dice nella cele­bre intervista resa a Peter Bogdanovich1. — Leggevo molti giornali, e i fumetti, da cui imparai moltissimo. Dicevo a me stesso: se della gente, un anno dopo l'altro, legge tanti fumetti, dovrà pur esserci qualcosa di interessante. E li trovai molto in­teressanti. Acquistai la capacità (e la possiedo ancora oggi) di comprendere il carattere americano; e imparai lo slang. Giravo per il paese in automobile cercando di parlare con tutti. Con­versavo con ogni tassista, ogni benzinaio che incontravo, e guardavo i film. Naturalmente mi interessavo molto anche agli indiani, andai perciò in Arizona e vi rimasi per sei o sette settimane vivendo con i navajos. Fui il primo a fotografare la loro pittura su sabbia, cosa che, trattandosi di una cerimonia religiosa, di solito era proibita. In tal modo mi procurai, cre­do, una certa conoscenza, niente di più. E acquistai una certa sensibilità per ciò che chiamerei l'atmosfera americana.»
I «giornali», i «fumetti», i «film», il «tassista», gli «indiani» sono probabilmente molto di più di ciò che Lang chiama «at­mosfera»: rappresentano la scoperta di una nuova materia di racconto e, insieme, il filtro capace di interpretarla, la dimen­sione «documentaria» del «social setting» e quella leggendaria che lo trasfigura, la varietà tipologica dell'eroe e, al contempo, l'unicità del «Joe Doe» (vale a dire dell'uomo comune) che la figura eroica, malvagia o buona che sia, deve adombrare.
II cinema di Fritz Lang, dal 1935 in poi, è contrassegnato dal continuo sforzo di far aderire la sostanza vitale delle giovani contraddizioni americane alla consapevolezza antica dell'intellettuale europeo.

Dalla Prefazione a Il colore dell'oro. Cinque storie per il cinema, Editori Riuniti, 1990

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