3.10.12

La (prima) rivoluzione industriale vista dai contemporanei

Uno dei primi telai meccanici a vapore
Uno degli aspetti più controversi che hanno da sempre accompagnato la ricostruzione storica della rivoluzione industriale riguarda il giudizio che ne diedero i contemporanei.
I critici di scuola marxista sottolineavano l’impoverimento che le classi lavoratrici conobbero all’inizio dell’800 e, in particolare, come l’industrializzazione comportò un decadimento di ampi settori di lavoratori da possessori del proprio lavoro a semplici salariati. Tale critica ha un suo primo momento di elaborazione nelle opere giovanili di Marx, scritte pochi anni dopo la prima fase della rivoluzione industriale; per Marx «l’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed estensione. L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merci che produce». Inoltre «Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si livellano sempre di più, perché la macchina cancella sempre più le differenze del lavoro e quasi dappertutto riduce il salario a un eguale basso livello»
Questa visione fortemente pessimista è rafforzata da altre corrispondenze e analisi più di carattere descrittivo, come l’opera giovanile di Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, un eccezionale reportage sulle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori inglesi, scritto nel 1845. In esso Engels riporta, oltre a impressioni proprie, le considerazioni di numerosi testimoni dell’epoca; ecco come un commissario governativo dell’inchiesta sulle condizioni dei tessitori a mano descrive un quartiere di Glasgow: «Ho visto la miseria in alcuni dei suoi stadi peggiori sia qui che sul continente, ma prima di visitare i Wynds di Glasgow non credevo che in qualche paese civile potessero esistere tante mostruosità, tanta miseria e tante malattie. Nelle case d’alloggio più infime dormono dieci e talvolta venti persone di ambo i sessi e di tutte le età mescolate insieme, più o meno svestite, sul pavimento. Le abitazioni sono usualmente così sudice, umide e cadenti che nessuno vorrebbe tenervi il suo cavallo.(...) Il loro letto era uno strato di paglia ammuffita frammista ad alcuni stracci. Pochi o addirittura inesistenti i mobili e l’unica cosa che desse a questi bugigattoli un aspetto abitabile era un fuoco nel camino»
Questo tipo di descrizione come quella delle condizioni di lavoro che numerosi contemporanei riportano, contrasta fortemente con quanto scriveva - un secolo prima, nel 1728 - a proposito delle condizioni delle classi lavoratrici Daniel Defoe: «Vediamo le loro case ed alloggi tollerabilmente ammobiliati o almeno ben provveduti delle utili e necessarie masserizie; anche coloro che chiamiamo poveri, gli operai, la gente che lavora e fatica, hanno questo modo di vita: dormono al caldo, vivono con agio, lavorano sodo e non sono sforzati a conoscere il bisogno. (...) Grazie ai loro
salari essi possono vivere con abbondanza ed è grazie al loro largo, generoso e libero modo di vivere che presso di noi il consumo così della nostra, come della produzione forestiera, è pervenuto a tanta mole». L’abisso che separa queste descrizioni ha avvalorato la teoria di un decadimento delle condizioni medie di vita in Inghilterra e, in particolare, dei lavoratori.
L’altra interpretazione della rivoluzione industriale, quella definita come «ottimistica», contesta che all’origine delle calamità sociali e delle carestie che attraversarono l’Inghilterra tra il 1760 e il 1830 ci siano le trasformazioni economiche e tecnologiche, bensì l’enorme sviluppo demografico dell’epoca. Per questi storici i salari erano aumentati in misura maggiore rispetto al costo della vita, inoltre era migliorata l’alimentazione e benché le condizioni di lavoro fossero dure esse erano comunque migliorate con l’introduzione della forza motrice che in certe industrie diminuì la fatica dell’uomo. Infine questa scuola di pensiero tende a giustificare i traumi della rivoluzione industriale con i benefici che questa avrebbe provocato - perlomeno in prospettiva - alla maggioranza della popolazione inglese.
Scrive David Landes a proposito della rivoluzione industriale: «Molti inglesi avrebbero voluto arrestarne il corso, o magari farla tornare indietro. Buone o cattive che fossero le loro ragioni, essi erano rattristati, infastiditi o indignati dalle sue conseguenze. Deploravano la fuliggine e la bruttezza delle nuove città industriali; lamentavano la crescente invadenza di crassi parvenues; denunciavano la precaria povertà di un proletariato senza radici. (...) È opportuno ricordare che questi pessimisti, per quanto rumorosi, erano una piccola minoranza di quella parte della società inglese che espresse un’opinione sull’argomento. Le classi medie e quelle superiori erano convinte, dinanzi alle meravigliose invenzioni della scienza e della tecnologia, alla massa e varietà crescente di beni materiali, al ritmo sempre più rapido e alle comodità sempre maggiori della vita quotidiana, di vivere nel migliore dei mondi possibili, un mondo, soprattutto, che non faceva che migliorare. Per costoro la scienza era la nuova rivelazione; e la rivoluzione industriale la prova e la giustificazione della religione del progresso».
È difficile che i lavoratori dell’epoca condividessero questa fede progressista; essi certamente vissero quell’imperiosa trasformazione come un traumatico stravolgimento del tessuto sociale in cui erano inseriti, spesso accompagnato dalla perdita di status e dal peggioramento delle proprie condizioni materiali.
A questa situazione reagirono in qualche modo e si scontrarono con una classe dirigente non omogenea, in via di formazione, spesso lacerata da profonde fratture ideologiche, ma fortemente unita nel contrastare il conflitto sociale determinato dalla rivoluzione industriale. Un contemporaneo, Thomas Peacock, illustra in un romanzo del 1831, Crotch et Castle, questo particolare rapporto che si stava creando nella società inglese. Vi si racconta di una conversazione tra personaggi di un ceto elevato che viene interrotta da una folla in rivolta: è arrivato Capitan Swing e i miserabili braccianti si son sollevati. Il reverendo dottor Folliott, un conservatore intelligente, dice allora che questa è la prova del «progresso intellettuale», il progresso di cui si vantano sempre i capitalisti: è la guerra dei contadini. Il signor McQuedy, economista scozzese, che rappresenta la pura ideologia del capitalismo, ribatte che ciò è impossibile, perché la guerra dei contadini non può andar d’accordo con il progresso intellettuale. Un reazionario romantico, il signor Chainmail afferma che la causa è la stessa di tutte le epoche oscure della storia: «miseria e disperazione». La discussione prosegue vivace, dividendo i fautori del liberismo economico dai conservatori, più favorevoli al mantenimento di talune misure paternalistiche nei confronti delle
classi popolari, finché il dottor Folliott conclude: «Ora non abbiamo tempo di discutere la causa e gli effetti, sbarazziamoci prima del nemico». E i membri riuniti della classe dirigente - conclude Thomas Peacock - «abbandonano l’analisi, prendono le armi e si precipitano fuori per disperdere nella notte i miserabili lavoratori».

Postilla
Il testo è una delle schede che corredano il primo fascicolo (Restaurazioni) de La Conquista. L’unità d’Italia nell’era della borghesia, lo speciale del “manifesto” dedicato ai 150 anni del Regno d’Italia nel febbraio 2011 e curato da Gabriele Polo. Mi pare cosa nella sua parzialità utile a mettere in luce i termini di una questione storiografica importante. (S.L.L.)

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