16.10.12

Per una storia sociale del rumore (di Stefano Pivato)

Ho trovato su un vecchio numero di “alias” un breve, sugoso e coinvolgente saggio che disegna le linee di una storia del rumore (e del suo avversario sconfitto, il silenzio) dalla prima rivoluzione industriale al giorno d’oggi. Ne colloco qui un ampio stralcio. (S.L.L.)
L'intonarumori, strumento musicale futurista
inventato da Luigi Russolo
All’inizio dell’Ottocento il movimento luddista, dal nome di Ned Ludd, personaggio probabilmente di fantasia, inizia una lotta senza quartiere contro la civiltà delle macchine. Il movimento, che vide protagonisti operai e lavoratori a domicilio, si proponeva la distruzione o il danneggiamento delle macchine. Tant’è che un popolare inno del movimento così recitava: «Lei ha un braccio/e benché ne abbia uno solo/c’è magia in questo unico braccio/che ne crocifigge milioni/Distruggiamo il Re Vapore, il Selvaggio Moloc».
Andò a finire invece che attraverso condanne a morte e deportazioni i luddisti ebbero vita breve. Se, per gioco, provassimo a ipotizzare - come certa storiografia statunitense insegna - l’ estensione e la vittoria delle teorie luddiste nel corso del Novecento, oggi saremmo immersi in un mondo assordato dal silenzio. Le cose andarono diversamente e «Il Re vapore, il Selvaggio Moloc» sono diventati gli idoli del Novecento, un periodo al quale non sta forse stretta la definizione di «secolo del rumore».
Il Novecento si preannuncia infatti all’insegna del frastuono. L’elettricità, la siderurgia e la meccanica costituiscono i settori trainanti della nascente industria. I primi opifici sorgono nelle periferie delle città e al loro interno il rumore è assordante. Telai meccanici e macchine a vapore sostituiscono il lavoro manuale e le sonorità dell’antico rumore artigiano sono ormai sovrastate da quelle delle nuova era industriale.
Treni, automobili, ciclomotori, aeroplani, telefoni, tram: il Novecento si preannuncia all’insegna di una velocità destinata a bruciare i ritmi della secolare civiltà contadina. Lo spazio e il tempo sono destinati a essere divorati sempre più in fretta e i silenzi della vita rurale sono via via sovrastati dal fracasso. Mentre nelle campagne si lavora «dall’alba al tramonto» e l’orario di lavoro è scandito dai ritmi naturali della giornata e delle stagioni, nelle fabbriche i turni sono annunciati dai suoni: della campana prima e, successivamente, dal fischio del vapore mano a mano che le manifatture si dotano di tale fonte di energia. Il suono che richiama gli operai al lavoro, ritmico e martellante, si ripete più volte nella giornata: alcuni regolamenti di fabbrica stabiliscono che il primo avvertimento si farà sentire venti minuti prima dell’inizio del lavoro per fare affrettare il passo degli operai; il secondo sarà emesso cinque minuti prima dell’inizio del lavoro; il terzo, infine, nel momento in cui tutti i dipendenti devono essere al loro posto. La stessa procedura sarà eseguita alla fine del turno per dare tempo agli operai di riassettare le macchine. Come in un ideale cambio di testimone il suono della campana, che aveva accompagnato per secoli la vita civile e religiosa dei borghi rurali, è sovrastato da quello della sirena degli opifici.
All’interno degli opifici il rumore è assordante e probabilmente non dissimile da quello rievocato da Friedrich Engels nella sua inchiesta sulla prima rivoluzione industriale inglese: «La macchina a vapore è sempre in movimento, le ruote, le cinghie e i fusi (…) ronzano e strepitano continuamente nelle orecchie». Oltre un secolo più tardi e in pieno boom economico Paolo Volponi, in Memoriale, insiste ossessivamente sul frastuono prodotto dai macchinari delle fabbriche che viene raffigurato come il simbolo di quella alienazione prodotta dal miracolo economico. «Scrivo del rumore - esordiva Volponi – perché la prima volta che uno entra nella fabbrica il rumore è la cosa più importante, e più che guardare uno sta a sentire e sta a sentire senza volontà quel gran rumore che cade addosso come una doccia… c’era dovunque… un rumore schietto, diverso dal rumore che si sentiva fuori dalla fabbrica. Era il rumore dell’aria compressa e quello di centinaia di stantuffi. Dal fondo dell’officina che attraversavamo veniva il rumore alterno e schiacciante delle presse. Dopo il primo momento s’avvertiva il rumore dei torni e dei trapani e poi, chissà da dove, lo squillo del metallo. Bisognava aspettare per sentire il rumore degli uomini; appena entrati si vedeva che parlavano e si muovevano senza però che a tali gesti si potesse attribuire un suono».
Ma non è solo il «Re Vapore» a invadere il paesaggio sonoro del Novecento. Con la prima guerra mondiale, per la prima volta nella storia dell’umanità, la guerra si ode. Milioni di soldati, abituati ai ritmi della campagna, prendono contatto con la civiltà industriale e tecnologica che la guerra impiega. Il fragore delle bombe e delle armi, il rumore delle automobili che trasportano gli ufficiali, quello degli autocarri per le salmerie e gli armamenti, lo sferragliare dei treni carichi di fanti, il trillare dei telefoni nei comandi di trincea o la musica del grammofono che di tanto in tanto allieta i momenti di pausa dei fanti in trincea, sono suoni nuovi per molti di coloro che prendono parte al conflitto. La guerra mostra a milioni di soldati come il mondo sia cambiato dal punto di vista tecnologico. Nell’universo mentale del fante, abituato ai silenzi della natura, quell’insieme di nuovi rumori provoca una disarticolazione dell’immagine tradizionale del mondo.
Quella che si profila nel corso della Grande guerra è una rivoluzione mentale nella quale il fattore tecnologico prevale su quello biologico e finisce per disintegrare l’idea della natura e dei suoi ritmi. Viene per la prima volta diagnosticata una malattia, la «schizofonia», che i medici individuano nella
separazione del suono dalle sue fonti originarie. Esemplificativo a proposito il telefono dal quale giungeva una voce emessa nello stesso tempo ma da un luogo lontano e ignoto. In realtà con il telefono, come per il grammofono e più tardi per la radio, il suono non era più come in natura legato alla sua origine nello spazio. Il suono, in definitiva, era separato dal contesto originario e perdeva in definitiva il collegamento con la sua origine nel tempo assumendo fisionomie artificiali.
Tuttavia se i nuovi rumori della civiltà tecnologica cambiavano la percezione sonora dei soldati, a provocare disturbi psichici ben più gravi erano i rombi sinistri delle armi che invadevano la zona del fronte e generavano terrore. Agostino Gemelli, il futuro fondatore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, in un ponderoso saggio dedicato a Il nostro soldato si sofferma ampiamente sugli effetti prodotti dal rumore di guerra nella mente del fante in trincea. I medici, nei loro referti e in ponderosi trattati scientifici, rilevano l’insorgenza di vere e proprie forme di malattie mentali «prevalentemente acustiche». Gran parte dei fenomeni emozionali e commozionali riscontrati nei «malati di mente» ricoverati negli ospedali erano dovuti proprio alle «esplosioni di mine o proiettili che avevano finito per provocare alterazioni del sistema nervoso. Altri medici segnalavano allucinazioni e improvvisi risvegli; altri annotavano clinicamente come alcuni soggetti imitassero «con la bocca (…) il rumore caratteristico della bombarda, crescendo sempre di tonalità». Oppure registravano casi di chi «con la voce imita il martellare della mitragliatrice». Il rumore - in definitiva - era fra le cause principali di un fenomeno patogenetico che rischiava di scemare gli entusiasmi che avevano accompagnato l’entrata in guerra. Quei suoni che alla vigilia del conflitto avevano indotto i futuristi a proclamare la guerra «igiene del mondo», si rivelavano in realtà fra le cause più profonde di disaffezione. Come a dire che se nella letteratura futurista i boati della guerra avevano suscitato entusiasmo, nelle trincee i fragori delle bombe avevano sortito un effetto opposto.
I rumori di guerra, con maggiore intensità rispetto alla prima guerra mondiale, avrebbero scosso l’intera penisola per un quinquennio. Ma ai fragori della trincea se ne sarebbe aggiunto uno del tutto nuovo: il rombo degli aeroplani e lo sconquasso provocato dai bombardamenti. Per la prima volta la paura della morte sarebbe provenuta dal cielo. Nei ricordi di chi l’ha vissuta è la sirena a preannunciare, con l’allarme, l’arrivo dei bombardieri. Nei ricordi che si affollano in quel formidabile deposito della memoria che è l’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano, i diaristi ricordano l’angoscia che provocava l’ululato della sirena, il rumore dei motori degli aerei e lo sconquasso provocato dalle bombe sulle case.
Terminata la guerra la fine dei bombardamenti avrebbe concesso una breve tregua dal rumore. In quel gigantesco processo di trasformazione che in Italia è noto con il nome, alquanto fragoroso, di «boom economico» si situa il definitivo «sorpasso» del rumore sul silenzio. Il boom economico avrebbe amplificato le sue fragorosità estendendo le conquiste industriali a strati sociali sempre più vasti. L’automobile, che all’inizio del Novecento suscitava al suo apparire paura e sconcerto, si avvia dalla seconda metà degli anni Cinquanta a divenire familiare a milioni di italiani, mentre Vespe e Lambrette anticipano l’era della motorizzazione di massa. Nel 1955 dagli stabilimenti della Fiat esce la prima utilitaria del nostro paese: la Seicento. Fra il 1952 e il 1958 la produzione degli autoveicoli passa da 113mila a 369mila unità. Se nel 1954 le automobili circolanti in Italia risultano circa 700mila, dieci anni più tardi sfiorano i cinque milioni per arrivare alle cifre iperboliche di oggi. Nel 2008 l’Istat registra, per la nostra penisola, un parco di vetture circolanti di circa trentacinque milioni, con un tasso di motorizzazione pari a 598,4 automobili ogni mille abitanti. Cioè a dire uno dei livelli più alti al mondo. Velocità e rumore aumentano in maniera esponenziale grazie non solo alla potenza di motori, ma in virtù di strade sempre più percorribili. Nel 1956 inizia la costruzione del primo tratto della autostrada del sole: è il principio di una attività destinata a cambiare radicalmente il panorama delle comunicazioni. Fra il 1950 e il 1970 la rete stradale italiana cresce di circa 122mila chilometri; di questi, nel 1975, ben 5177 sono di autostrade: una cifra che è doppia rispetto a quella di paesi come la Francia e due volte e mezzo quella della Gran Bretagna. Fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo si colloca il definitivo sorpasso del trasporto su quattro ruote nei confronti di quello ferroviario.
La rivoluzione in atto nel sistema dei trasporti determina anche una nuova scala di valori nella percezione dei rumori. Il treno, che all’origine era entrato nell’immaginario come una delle principali fonti di rumore, veniva ampiamente sovrastato dal fragore delle automobili destinate, nell’arco di qualche decennio, a divenire la principale fonte di disturbo. Secondo i dati esibiti dall’Ocse oggi l’inquinamento acustico nelle città è infatti provocato principalmente dal traffico veicolare (63%), dagli impianti industriali (20%), dal traffico aereo (14%) e da quello ferroviario(6%). In particolare si registra un aggravamento di questa situazione attribuibile soprattutto al traffico autostradale, in quanto ogni riduzione nella emissione acustica dei singoli veicoli risulta essere vanificato dal continuo incremento dei volumi di traffico stradale.
Paradossalmente, nell’arco di oltre un secolo, l’invasione crescente del rumore ha condotto a un rovesciamento di significati sociali nel rapporto fra silenzio e rumore. Nell’Ottocento, infatti, il silenzio non solo rivestiva una dimensione naturale ma, fuori dal paesaggio, era addirittura identificabile con una dimensione fortemente educativa. La dimensione, tutta spirituale, di un silenzio cattolico che rasentava forme di ascetismo certo. Ma anche, se non soprattutto, quel silenzio che diventa uno dei tratti fondamentali della educazione dell’italiano nuovo. Il «fare gli italiani» comportava, in definitiva, una educazione al silenzio che i fanciulli (e soprattutto le fanciulle) ricevevano fin dalla tenera età. Il silenzio come norma di quelle buone maniere volte a forgiare un nuovo tipo di cittadino. Ma il silenzio, così concepito, diviene anche sintomo di ubbidienza e di sottomissione. Particolarmente per le donne: il silenzio è considerata una virtù. Ma, soprattutto, è ritenuto un metro di sottomissione al volere del padre o del marito. Manuali di buone maniere, regole di comportamento e costumi codificati nei secoli indicano concordemente nel «saper tacere» una delle principali doti femminili. E, in virtù di una morale che invita alla morigeratezza in ogni aspetto della vita pubblica e privata, ritengono inappropriati gli atteggiamenti che fanno uscire la donna da un «naturale riserbo». Il silenzio dunque come segno distintivo della borghesia.
Il «saper tacere» come tratto caratteristico delle classe elevate. E, all’opposto, il «rumore» del proletariato che, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento comincia ad «alzare la voce». E, con quella la testa. Il movimento operaio inizia in definitiva a sovrastare i silenzi della borghesia, a disubbidire con il rumore (delle folle, delle piazze, dei comizi) a norme di comportamento sociale basate proprio sul silenzio (reale e metaforico). Agli albori dell’era industriale il rumore e il silenzio diventano schemi ideologici dietro i quali si palesano contrapposizioni sociali ben distinte.
Oggi le parti sembrano decisamente invertite. La scoperta dell’ecologismo e dei temi dell’ambiente ha elevato a valore il silenzio in gran parte del mondo della sinistra. All’opposto il rumore sembra oggi dimorare in quelle classi sociali che hanno distrutto il paesaggio o hanno elevato a nuovi idoli di un’epoca il consumismo, l’industrializzazione e la motorizzazione. La tesi è magari discutibile. Ce n’è comunque quanto basta per concordare con Jacques Attali che ormai una trentina di anni fa asseriva che «il mondo non si guarda, si ode. Non si legge, si ascolta».

“alias”, 23 aprile 2011

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