5.10.12

Un evento "fondativo". La prima industrializzazione in Inghilterra

Un’altra scheda, ampia e chiara, dai bei fascicoli del “manifesto” sull’Ottocento dell’unità italiana e della borghesia europea curati da Gabriele Polo, cui si deve – credo – anche il testo che segue. (S.L.L.)
È comunemente definita come rivoluzione industriale (il termine fu introdotto dal socialista francese Louis Auguste Blanqui nel 1837) la prima fase del processo di industrializzazione, caratterizzato dall’introduzione nell’attività produttiva di nuove macchine e fonti di energie, di nuovi mezzi di trasporto e dall’organizzazione di fabbrica. Si tratta di un processo avviato in Inghilterra a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e poi estesosi ad altri paesi. L’importanza di quello che si potrebbe considerare un fenomeno in fin dei conti limitato nello spazio e nel tempo, risiede nel sua portata universale: i nuovi sistemi produttivi, le nuove regole economiche e i nuovi rapporti sociali che si formarono in Inghilterra nel corso di una cinquantina d’anni, finirono per condizionare tutte le società e tutti i paesi per i decenni successivi. La rivoluzione industriale cambiò il volto dell’epoca contemporanea e ne condizionò gli sviluppi; la «superiorità» del capitalismo industriale rispetto ai sistemi economico-sociali precedenti si manifestò nella rapidità con cui soppiantò i rapporti produttivi lentamente formatisi nei secoli precedenti e nelle sue ripercussioni sul piano politico: dal suo avvento la potenza politica degli stati si misurò sempre di più sul piano del loro peso industriale, una grande nazione non poteva che essere una nazione industrializzata.
Ancor oggi noi viviamo in un sistema industriale e nonostante i numerosissimi cambiamenti tecnologici avvenuti in questi due secoli, possiamo affermare che questi si sono inseriti all’interno del percorso storico iniziato nell’Inghilterra della fine del XVIII secolo e che ancor oggi restano sostanzialmente intatti i suoi principali elementi costitutivi. Anche per questo la rivoluzione industriale inglese è un «evento» fondamentale - «fondativo» - forse il più importante dell’epoca contemporanea. Inoltre il suo essere diventata un modello socio-economico la fa assurgere al rango di quei paradigmi storici che per gli studiosi costituiscono un punto di riferimento ineludibile. Eppure questo processo di così ampia portata prese l’avvio da un paese, l’Inghilterra, che ai contemporanei non appariva essere, attorno al 1750, alla soglia delle rapidissime trasformazioni che si sarebbero verificate in pochi anni: nessuno sarebbe stato in grado di prevedere l’imminente rivoluzione industriale, benché il paese si distinguesse dal resto dell’Europa per la sua natura essenzialmente commerciale e per un aggressivo espansionismo marittimo. Inoltre già si era creata una classe di imprenditori privati estremamente dinamici, favoriti dalla quasi scomparsa della piccola proprietà agricola e da un sistema politico molto tollerante nei confronti dell’iniziativa privata e per nulla disposto a difendere i vantaggi economici basati principalmente sul privilegio aristocratico, come invece ancora avveniva nell’Europa continentale.
In particolare la scomparsa della piccola proprietà terriera permise la concentrazione della terra in grandi latifondi e una conseguente applicazione di sistemi intensivi di coltivazione che incrementarono la produzione agricola e il relativo commercio, «generando» una massa di «lavoratori liberi» (uomini e donne sottratti al vincolo della terra, quindi disponibili a spostarsi dove il mercato del lavoro li richiamava, e disponibili - perché costretti dalla necessità – a qualunque lavoro); costoro formarono l’esercito industriale per i nuovi grandi opifici che sarebbero rapidamente sorti in concorrenza con gli artigiani che svolgevano il loro lavoro a domicilio e che erano dotati di una certa professionalità (quelle conoscenze di mestiere che le innovazioni tecnologiche renderanno presto inutili).
La scomparsa della piccola proprietà contadina fu principalmente una conseguenza delle cosiddette enclosures, cioè della recinzione dei terreni a uso collettivo. Erano questi degli appezzamenti su cui vigeva un diritto di derivazione medievale: ogni comunità o villaggio aveva una serie di terreni di proprietà collettiva di cui ognuno poteva usufruire, per la raccolta della legna, il pascolo e altre attività di carattere agricolo che integravano l’economia dei piccoli proprietari terrieri e permettevano loro di sopravvivere. Nella seconda metà del 700 le enclosures, iniziate due secoli prima, dilagarono: la media annuale in ettari delle recinzioni passava dai 2.067 dei primi sessant’anni del XVIII secolo ai 31.500 del quarantennio 1760-1800, dai 208 atti di recinzione ai 3.500. I piccoli proprietari rovinati dalle enclosures divennero dei salariati braccianti agricoli o lavoratori dell’industria) o si diedero al vagabondaggio (che divenne un «reato» considerato talmente grave da essere punito con l’impiccagione).
Nonostante queste premesse la rivoluzione industriale apparve ai contemporanei come un’improvvisa esplosione e la rapidità del suo procedere potrebbe giustificare questo giudizio. Tuttavia noi oggi possiamo distinguere abbastanza chiaramente quali furono le ragioni che fecero dell’Inghilterra «l’officina del mondo» (come poi venne definita) e perché la rivoluzione industriale prese avvio proprio in quel paese. Tre furono le cause principali: lo sviluppo del mercato e del consumo interno, la possibilità di esportare le proprie merci all’estero grazie alla propria forza commerciale marittima e la politica del governo che facilitò questi processi. Nel periodo precedente la rivoluzione industriale la popolazione inglese aumentò in maniera graduale, costante, ma mai traumatica; i prezzi agricoli ebbero una certa stabilità; i trasporti migliorarono sensibilmente e le materie prime (in particolare il carbone) si resero ampiamente disponibili. Questi elementi coniugati tra loro ampliarono e resero stabile il mercato interno, sollecitando così l’aumento produttivo e fornendo un «retroterra» in cui la nascente industria inglese poteva rifugiarsi quando il mercato internazionale si rendeva instabile e pericoloso (come durante la Rivoluzione americana o le guerre napoleoniche). Inoltre il mercato interno e la sua diffusione ampia e generalizzata a tutto il paese, permise uno sviluppo omogeneo e fece sì che le aree di prima industrializzazione non rimanessero isolate e circondate dal sottosviluppo, ma trascinassero tutto il paese nel processo industriale. Se il mercato interno fornì le precondizioni e la stabilità necessaria per la rivoluzione industriale, la scintilla venne dal mercato internazionale e dalla posizione di sostanziale monopolio mondiale che l’Inghilterra riuscì ad assumere nel commercio di alcune merci. Il settore del cotone - il primo a essere industrializzato - era strettamente collegato al commercio d’oltremare: tutta la sua materia prima era importata dalle aree tropicali e subtropicali e i suoi prodotti erano destinati soprattutto all’esportazione.
L’Inghilterra, grazie al controllo dei mari riuscì a concentrare a proprio beneficio i mercati d’importazione di altri popoli e a monopolizzare i mercati mondiali in un breve periodo di tempo: ciò comportò la possibilità d’espandere vertiginosamente la produzione. Ma questa posizione di monopolio sul mercato internazionale presupponeva non solo la primogenitura del processo industriale, ma anche una politica governativa disposta a muover guerra e a colonizzare, pur di proteggere i manufatti britannici. I governi inglesi del XVIII secolo (ma così fu anche per il secolo successivo) subordinarono la loro politica estera agli obiettivi economici: l’aggressività della politica estera britannica, in particolare contro il più pericoloso avversario, la Francia, nel ‘700 portò a un secolo di guerre intermittenti (guerra di successione spagnola, guerra di successione austriaca, guerra dei Sette Anni, guerra d’indipendenza americana e guerre francesi rivoluzionarie e napoleoniche) che avevano il virtuale obiettivo di raggiungere il monopolio inglese nel commercio con le colonie d’oltremare tra le potenze europee. In questo quadro si sviluppò la rivoluzione industriale, che gli storici comunemente suddividono in due fasi: la prima, dagli ultimi due decenni del ‘700 alla fine delle guerre napoleoniche, ebbe come elemento portante la produzione industriale su vasta scala dei tessuti di cotone; la seconda, dal 1830 alla metà dell’800, vide lo sviluppo delle ferrovie e dell’industria meccanica (come vedremo più avanti).
Alcuni dati sulla prima fase di questo processo offrono la misura del suo impetuoso sviluppo. La produzione agricola aumentò del 50% tra il 1780 e il 1820; in particolare dal 1800 il tasso d’incremento annuo fu del 100%, sotto la spinta della guerra e dell’incremento demografico che negli ultimi decenni del ‘700 ebbe un’impennata portando la popolazione di Inghilterra e Galles da poco più di sei milioni di abitanti agli oltre nove milioni del 1800. Il consumo industriale del cotone grezzo in soli trent’anni, dal 1815 al 1845, aumentò di sette volte e mezzo, passando da 37.000 a 275.6000 tonnellate, il numero degli occupati rimaneva stabile attorno alle 100.000 unità (con un evidente incremento della produttività pro-capite, frutto dell’organizzazione industriale del lavoro), ma i tessitori con telaio a mano, artigiani o lavoratori a domicilio diminuivano rapidamente (dal 66% al 18% del totale) fino a quasi scomparire, mentre cresceva la quota degli occupati nelle fabbriche. La trasformazione tecnologica, cioè l’invenzione di nuove macchine e l’applicazione di questi brevetti alla produzione di merci in modo che queste potessero essere prodotte in misura maggiore e con minori costi, fu l’altra grande spinta che permise il salto della rivoluzione industriale.
A partire dalla macchina a vapore brevettata da James Watt nel 1769, l’Inghilterra prima e l’Europa poi, furono attraversate da una grande ondata innovativa: ingegneri e inventori produssero quel salto di qualità che trasformò radicalmente il modo di lavorare e produrre. Per fornire un’idea del fenomeno basta ricordare che mentre nel ventennio 1770-1789 in Inghilterra vennero approvati solo 771 brevetti, in quello 1830-1849 la loro cifra sale a 7.034; è vero che molti di questi brevetti non trovarono una corrispondente applicazione nell’industria, ma l’andamento della curva è tale da testimoniare il progressivo crescente interesse verso i problemi della tecnica, tale da far diventare l’ingegneria la professione più apprezzata di quel periodo. Dopo la macchina a vapore, i primi passaggi fondamentali di tale progresso tecnologico furono il filatoio meccanico (1779), il telaio meccanico (1785), la trebbiatrice (1795), la nave a vapore (1805), la locomotiva a vapore (1814). Furono proprio queste invenzioni e la loro diffusione nella nascente industria a rendere più evidente quella questione sociale che sarebbe poi diventata il problema fondamentale del secolo anche nei suoi risvolti politici. Se l’esistenza di grandi masse di lavoratori poveri - che non possedevano null’altro che il loro lavoro - aveva preceduto e accompagnato lo sviluppo della rivoluzione industriale, l’accelerazione imposta dall’innovazione tecnologica e dal conseguente «sistema di macchine» creò le condizioni per cui da un giorno all’altro migliaia di persone di una comunità agricola o di una fabbrica potevano perdere il loro lavoro per l’introduzione di sistemi produttivi che rendevano inutile o superata la loro prestazione. Così i primi conflitti sociali e le prime forme d’organizzazione di operai e contadini furono proprio tentativi di resistenza all’introduzione di nuove tecniche produttive. Spesso si trattò di artigiani, braccianti, lavoratori professionali che si organizzarono per opporsi allo sconvolgimento delle loro vite che il capitalismo industriale imponeva: essi trovarono nel radicalismo e nel giacobinismo l’involucro ideale in cui calare la lotta per la difesa delle proprie condizioni materiali. Il movimento operaio nacque così, prima di tutto come movimento di resistenza e «conservazione»: questo termine non ha nulla a che vedere con il conservatorismo politico del congresso di Vienna e delle aristocrazie europee; il particolare «conservatorismo » dei lavoratori della prima rivoluzione industriale aveva come obiettivo il mantenimento delle condizioni di vita precedentemente acquisite, le tradizioni culturali delle comunità di agricoltori e artigiani, le garanzie materiali che permettevano agli uomini e alle donne dei ceti più bassi di vivere dignitosamente.
L’esempio più clamoroso di questa prima forma di movimento operaio (nell’Inghilterra di inizio 800) fu il cosiddetto luddismo, il movimento «dei distruttori di macchine» che si batté contro l’introduzione dei telai meccanici nell’industria del cotone e delle trebbiatrici in agricoltura. Al luddismo si accompagnò il movimento politico radicale (particolarmente presente nella città di Londra e a formazione prevalentemente artigianale), che chiedeva la riforma elettorale a base universale e una maggiore libertà d’espressione.
Così nei primi trent’anni dell’800 la Gran Bretagna fu attraversata da un’ondata di malcontento popolare senza precedenti, fino a produrre un vasto movimento rivoluzionario; e anche questo elemento politico testimonia il grande sconvolgimento sociale introdotto dalla rivoluzione industriale che spinse moltissime persone verso la protesta sociale e politica. Pesantissima fu la reazione dei governi inglesi con leggi che decretavano la pena di morte per i «distruttori di macchine», punivano con i lavori forzati e la deportazione le associazioni operaie (l’Australia conobbe in quel periodo un’enorme afflusso di deportati), arrivando a promulgare (anche grazie alla situazione di guerra contro la Francia che permetteva di considerare dei traditori tutti coloro che esprimevano una critica politica al governo) una legislazione d’emergenza che permetteva di accelerare persecuzioni e condanne anche nei confronti di scrittori e intellettuali che si richiamavano in qualche modo al movimento democratico. Represse e sconfitte, queste prime organizzazioni operaie e democratiche sembrarono scomparire, ma il disagio sociale, frutto della rivoluzione industriale su cui erano cresciute, non scomparve e finì per manifestarsi nuovamente in maniera esplicita alcuni decenni più tardi, in nuove forme e con contenuti più vicini a quelli che noi oggi conosciamo: a trasformazione avvenuta i lavoratori non si proponevano più di arrestare il cambiamento, bensì di migliorare la propria condizione dentro un contesto - ormai pienamente industriale - di cui si sentivano parte.

La conquista. L’unità d’Italia nell’epoca della borghesia - Fascicolo 1 – Restaurazioni
Speciale de “il manifesto” per i 150 anni del regno d’Italia a cura di Gabriele Polo – febbraio 2011

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