12.11.12

Bianca Guidetti Serra: partigiana, comunista, avvocata.

Bianca Guidetti Serra in una foto giovanile
Nell’imminenza dei suoi novant’anni Bianca Guidetti Serra fu intervistata per “La Stampa” da Alberto Papuzzi. Riprendo una parte dell’articolo. (S.L.L.)
Bianca Guidetti Serra a una celebrazione della Resistenza
Compirà novant'anni fra meno di tre mesi. E' nata infatti a Torino il 19 agosto del 1919. Dice: «Non ho ancora deciso come festeggiare».

Bianca Guidetti Serra, battagliero avvocato torinese che naturalmente non esercita più, è sempre lei, un po' più diafana, un po' più indulgente, folti capelli bianchissimi, la stessa ironia negli occhi azzurri, molto understatement, come si usa fra piemontesi doc. Ha avuto qualche guaio, si è rotta un femore, ma regge bene il passo della vecchiaia.
Avvocato Guidetti, com'era la sua famiglia? Si poteva dire che apparteneva alla buona borghesia torinese?
«Bah! Mio padre era avvocato, di famiglia alessandrina. Avvocato civilista che morì quando facevo la maturità. Mia mamma veniva da una famiglia operaia vercellese. Faceva la sarta, molto brava. Quando si è sposata mia padre non ha voluto che continuasse a lavorare. Ha ripreso da vedova, per tirare su me e Carla, la mia sorella un po' più giovane che vive a Roma. D'altronde anche la famiglia di mio padre era fatta in origine di operai emigrati in Sud America e poi tornati a Alessandria. La morte di mio padre cambiò molte cose: non c'erano soldi e io sono dovuta andare a lavorare subito dopo l'esame di maturità».
Che lavoro faceva?
«Avevo letto che c'erano le assistenti sociali di fabbrica, allora mi sono presentata all'Unione Industriali. Mi hanno assunto forse perché c'era la guerra, non avevano personale di quel tipo. Ciascuna di noi si vedeva assegnate quattro o cinque fabbriche: andavi, ascoltavi. Le operaie ti dicevano di cosa avevano bisogno, magari il marito era in guerra e loro non ne avevano notizie».
Quando è diventata grande amica di Primo Levi?
«Quando abbiamo dato la maturità. Lui era compagno di scuola di Alberto Salmoni, l'uomo che poi avrei sposato. Decisive furono le leggi razziali: mi hanno indignata, mi hanno scossa direi passionalmente e questa è stata la ragione per cui mi sono schierata da una certa parte, il che ha saldato i rapporti con quel gruppo di amici ebrei che comprendeva Alberto e Primo».
Lei non era dunque antifascista. Lo diventò per reazione alle persecuzioni antisemitiche.
«Avevo un certo spirito un po' ribelle. Sono sempre stata a favore dell'emancipazione femminile. Mi dicevo: ''Perché non posso essere come gli uomini?". Ma è vero che sono state le leggi razziali a farmi schierare».
Una volta apparvero nelle strade di Torino manifesti antisemiti: allora lei, sua sorella, Alberto Salmoni, con il fratello Bruno e la cognata Lilla, e altri amici, per diverse sere andaste in giro a strapparli, sotto gli occhi sbalorditi dei torinesi. Era una specie di ragazzata o era già un'azione politica?
«La polizia ci bloccò, ma non fummo fermati. Avrebbero potuto farlo, tenerci dentro qualche giorno, dipendeva da quello che sapevano su di te, se il fermo era casuale, se ti avevano colto in flagranza. Comunque per me e mia sorella era stata un'azione dettata da una prima consapevolezza politica. Non del tutto chiara, ma insomma abbastanza».
Si racconta di una volta che Alberto Salmoni e Primo Levi partirono in bicicletta da Torino per andare a trovare lei da una zia a Cortina. Che cosa le piaceva di Alberto Salmoni?
«Era un gran bel ragazzo. Siamo stati in ottimi rapporti per molto tempo. Anche dopo la separazione. Lo siamo ancora adesso, lui ultimamente non sta bene. Però evidentemente io ero una moglie un po' pesante: viaggiavo, mi assentavo, ero impegnata nel movimento femminista...».
Ma che cosa l'aveva affascinata nel suo fidanzato e marito?
«Gliel'ho detto: che fosse un così bel ragazzo».
Da partigiana lei ha fatto parte di gruppi femminili. Che cosa erano?
«I Gruppi di difesa delle donne erano la parte di Resistenza che si svolgeva diciamo in città. Erano un'organizzazione di donne legate a tutti i partiti che facevano attività clandestina a piccoli gruppi, nelle zone delle fabbriche o in centro città. Io contribuivo a diffondere un bollettino ciclostilato. Era un modo di coniugare la guerra di liberazione con tipiche rivendicazioni femministe. A volte facevamo dei piccoli comizi: una montava su una sedia, faceva un discorsino politico, poi si distribuivano questi giornalini e via di corsa. Sono stata spesso fermata, ma me la sono sempre cavata».
Perché ha scelto di fare l'avvocato? Quante donne avvocato c'erano?
«Io mi sono laureata nel luglio 1943. Piano piano ho dato gli esami da procuratore e ho aperto uno studio da sola. Se non mi sbaglio a Torino eravamo quattro o cinque donne avvocato, non di più. Di penaliste forse c'ero io sola. Nell'ambiente forense l'atteggiamento prevalente era: ''Lasciamola fare". Comunque io non l'ho vissuta male. E poi ero determinata».
Era una tosta?
«Bah! Visto che c'ero, allora c'ero. Io credevo nel senso di far valere la giustizia. Volevo ottenere risultati cercando di aiutare la gente. All'inizio ho lavorato per Camera del Lavoro: giravo le fabbriche, assistevo gli operai. Ho cercato di fare le cose giuste da fare».
Il suo processo più importante è stato sicuramente quello sulle schedature Fiat, Anni 70, dove era parte civile: il pretore Guariniello aveva sequestrato 354 mila schede su operai politicizzati o sindacalizzati. Secondo lei, fu una sconfitta perché si concluse a Napoli con l'assoluzione degli imputati, o fu una vittoria perché comunque scoperchiò una pratica antidemocratica?
«Io credo che un significato l'abbia avuto: quello di non accettare un sistema iniquo senza protestare. Era una storia di abusi. Che giustificava la volontà di ribellarsi. Dopo di allora nessuno poté più pensare di trattare così gli operai».
Lei è stata consigliere comunale e membro del parlamento, sempre come indipendente, sia per il Partito comunista sia per Democrazia proletaria. In parte ne ha parlato in Compagne (Einaudi). Come valuta la sua esperienza politica?
«Sono contenta di essere stata sempre da quella parte. Sono contenta di aver fatto scelte che corrispondevano al mio sentimento nei confronti di chi ha bisogno d'aiuto».
Come si sente nell'Italia d'oggi?
«Credo che nessun oggi si sogni di negare la democrazia. Quindi un passo avanti importante è stato fatto. Forse questa democrazia traballa un po' in questo periodo. Però il discorso che siamo uguali, che tutti abbiamo gli stessi diritti, e così via, mi sembra oggi abbastanza radicato».
Fra le tante persone, anche anonime, che lei ha incontrato, ne ricordi una che le fa piacere, che la commuove ancora.
«Non è facile. Forse Vincenza Castrìa, una contadina meridionale che mi mandò questo libro, Montescaglioso 1949, sull'occupazione delle terre, cui aveva partecipato. Quando venne a Torino, per parlare di quel movimento, fu ospite a casa mia. Diventammo amiche, ci scrivevamo spesso, è stato per me un rapporto importante: faceva parte di quella gente che ha voluto dare senza che nessuno chiedesse».

“La Stampa”, 24 maggio 2009 

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