9.11.12

Bianca Guidetti Serra racconta Primo Levi (Alberto Papuzzi)

Nel ventennale della morte per suicidio di Primo Levi, il 1° aprile 2007, il quotidiano “La Stampa” dedicò ben quattro pagine a colui che era stato uno tra i suoi più prestigiosi collaboratori. Uno dei servizi è rappresentato da un’intervista a Bianca Guidetti Serra, partigiana, comunista e avvocata, che era stata tra gli amici più cari dello scrittore. (S.L.L.)
Cortina d’Ampezzo, luglio '40. Da sinistra sono riconoscibili
Alberto Salmoni (primo), Bianca Guidetti Serra (seconda)
e Primo Levi (ultimo ). Archivio Bianca Guidetti Serra.
''Un'estate ero a Cortina: lui venne in bicicletta...''
Primo Levi ne parlava come dell'amica prediletta, «una donna straordinaria».
E' Bianca Guidetti Serra, 87 anni, avvocato torinese, impegnata a sinistra (autrice nel 1977 dell'einaudiano Compagne). Lei ha frequentato Primo negli anni dell'università, prima della guerra, un periodo che lui ricordava tra i più felici.
Come vi eravate conosciuti?
«Lui era compagno di corso di Alberto Salmoni, anch'egli ebreo, che poi è diventato mio marito. Facevamo spessissimo lunghe passeggiate e gite in montagna. C'erano già le leggi razziali, che anche per me, che ebrea non ero, furono determinanti per le scelte di vita. Non si capiva quale fosse la ragione per cui erano state promulgate, o la si capiva troppo, ed era una cosa ingiustificata e vergognosa. Abbiamo trascorso una vacanza anche a Cortina d'Ampezzo, nella casa d'una mia zia che per noi era la ''zia ricca''. Alberto e Primo erano venuti in bicicletta da Torino».

Com'era Primo Levi da giovane?
«Si coglieva subito la sua intelligenza insolita. Leggeva molto. Sempre un po' riservato. Però con diversi amici».

A Ian Thomson, autore della molto documentata biografia Primo Levi (Hutchinson 2002) lei ha detto che Primo possedeva un senso quasi religioso di stupore per le varie forme di vita.
«Sì, una cosa che spiccava era il suo acuto spirito di osservazione: qualsiasi piccolo fenomeno attirava la sua attenzione. Non so, un insetto, un cespuglio».

A Carole Angier, autrice di un'altra biografia di Primo, Il doppio legame (Mondadori 2004), lei ha spiegato che "sapeva raccontare".
«Sì, sapeva raccontare, ma soprattutto ascoltare. Era uno che stava a sentire. Io allora lavoravo, facevo l'assistente sociale di fabbrica. Lui era curioso di queste mie esperienze, mi tempestava di domande: Ma il tale com'è finito? Ma tu che idea ti sei fatta?».

Prevalevano lo spirito scientifico o la passione letteraria?
«Be', lo spirito scientifico senza dubbio» .

Quando parlavamo degli anni giovanili, Primo mi spiegava che c'era stata una cesura con la generazione di intellettuali immediatamente precedente, quella per capirci dei Bobbio e dei Mila, o di Vittorio Foa, suo cugino. Come se il fascismo fosse riuscito a oscurarli...
«Sì, è vero. Evidentemente in quelle condizioni bastavano dieci anni per scavare un solco. Io comunque venivo da un ambiente sociale d'altro tipo».

Primo Levi, salito in montagna con un gruppo di azionisti, venne catturato in Valle d'Aosta, il 13 dicembre 1943, grazie a un infiltrato. Anche lei era in montagna?
«No, io ho sempre fatto lavoro clandestino in città. Nel partito comunista».

Mentre Primo era azionista...
«Era con un gruppo azionista. In realtà credo non abbia mai fatto parte del Partito d'Azione. Non era una vera e propria scelta. Diciamo che il gruppo degli amici era prevalentemente del Partito d'Azione».

Quali reazioni suscitò la cattura?
«Be', eravamo tutti in ansia. Ma quanto accaduto a Primo avveniva anche per molti altri. Per cui si viveva un sentimento generale di dolore e preoccupazione per gli amici catturati».

Dal treno che lo portava a Auschwitz, Primo le mandò una cartolina, con un tocco ironico: "Cara Bianca, tutti in viaggio alla maniera classica". Un altro messaggio le fece pervenire dal Lager attraverso l'operaio Perrone. Che cosa ne pensava? Lei sapeva dei campi di concentramento?
«La cartolina famosa, custodita in un museo, è quella dal Lager, spedita da Perrone, questo operaio che qualche volta gli metteva via una scodella di cibo. Diceva solo che Primo stava bene. Sapevamo delle deportazioni, ma non avevamo idea della dimensione della tragedia, nè del piano di sterminio. Appena ricevuta la cartolina ho attivato dei canali perché la mamma e la sorella di Primo, che erano nascoste non sapevo dove, si mettessero in contatto con me. Ci siamo viste in via Principe Amedeo angolo piazza Vittorio. La mamma ha guardato la cartolina e poi mi ha detto: "Ma hai visto la data? Sono passati venti giorni". Nel senso che potevano essere accadute tante cose».

Lei e Primo, vi siete rivisti nell'ottobre del 1945. Come fu quell'incontro?
«La data non me la ricordo. Ha telefonato e ci siamo precipitati a casa sua. Mi ricordo che è venuto lui a aprirci la porta. Apparentemente non stava male. C'erano vari amici. Direi che non raccontava nulla, s'è messo a raccontare dopo».

Questo suo raccontare com'era?
«Non era un confidare, neppure un lamentare. Era un analizzare. C'era uno sforzo di ricostruire i fatti nella loro integrità, c'era la lucidità anche etica di chi vuole capire».

Lei sapeva della depressione che portò Primo al suicidio?
«Sapevo che non stava bene. Non immaginavo una forma così grave. Mi ricordo una telefonata della moglie che cercava di mascherare l'ansia: "Porta a spasso il tuo amico che è di cattivo umore".
Sono andata a prenderlo con la Cinquecento. Abbiamo parlato del processo delle Brigate rosse che io seguivo allora. Mi disse qualcosa del tipo: Brava, brava, vedo che fai tante cose. Io invece non mi appassiono più a niente. Lui che prima s'interessava a tutto».

Ho sempre pensato che Primo abbia dovuto reggere a fatica il ruolo del giusto e del saggio. Sbagliavo?
«Secondo me per un lungo periodo quel ruolo non gli è pesato, ma può esserlo diventato ultimamente. In tanti gli chiedevano di tutto e lui non ce la faceva più».

“La Stampa”, primo aprile 2007 

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