3.11.12

I potenti e il popolo (dal “Thyl Ulenspiegel” di Charles De Coster)

La Leggenda di Thyl Ulenspiegel di Charles De Coster (1827-1879), è il romanzo-simbolo dell'epopea nazionale del popolo fiammingo e, insieme, un affresco storico del secolo XVI, uno tra i più alti esempi di letteratura civile dell'Europa moderna in formazione.
Tradotto per la prima volta in italiano nel 1914 da Umberto Fracchia per i famosi «classici del ridere» di Formiggini, fu riproposto dagli Editori Riuniti nel 1984 nella stessa versione con saggio introduttivo di Michele Rago (Commedia più tragedia uguale leggenda).
Di questo famoso classico, che ebbe una stentata, tardiva e relativa fortuna, ripropongo i capitoli 45 e 46.(S.L.L.)

Thyl Ulenspiegel
***
Il re Filippo e la regina Maria
Ma re Filippo non aveva fame e mangiava pasticci accanto a sua moglie Maria, la brutta, della real famiglia dei Tudor. Egli non l'amava punto ma sperava, fecondando quella poverina, di dare alla nazione inglese un monarca spagnolo. Disgraziata fu quest'unione di un selce con un tizzo ardente. Essi si unirono tuttavia abbastanza per fare annegare e bruciare centinaia di poveri riformati.
Quando Filippo era a Londra, e non usciva travestito per andarsi a ficcare in qualche brutto posto, l'ora del sonno riuniva i due sposi.
Allora la regina Maria, vestita di bella tela di Tournay e di merletti d'Irlanda, s'appoggiava al letto nuziale, e Filippo, dinanzi a lei ritto come un palo, guardava se per caso non scoprisse nella sua donna qualche segno di maternità; ma non vedendo nulla, si crucciava senza parlare e si guardava le unghie.
Allora la vampiressa sterile, dicendo parole tenere e cercando di render dolci i suoi occhi, invocava amore dal glaciale Filippo. Lacrime, grida, suppliche, nulla risparmiava per ottenere una tepida carezza da colui che non l'amava.
Invano si trascinava ai suoi piedi con le mani giunte, invano piangeva e rideva, nello stesso tempo, come una pazza, per intenerirlo; né riso né lacrime smuovevano la pietra di quel cuore durissimo. Invano, come un serpente innamorato, lo allacciava con le sue esili braccia e serrava contro il suo petto la stretta gabbia dove viveva l'anima intristita del re: egli rimaneva impassibile, come un termine. Ella cercava, la povera brutta, di diventar graziosa; lo chiamava con tutti i dolci nomi che li innamorati pazzi danno all'amore prediletto: Filippo si guardava le unghie.
Talvolta rispondeva: — Dunque non avrai figli!
A queste parole Maria curvava il capo.
— È forse mia colpa se sono sterile? — diceva. — Abbi pietà di me: io vivo come una vedova.
— E perché non hai figli? — ripeteva Filippo.
Allora la regina cadeva sul tappeto come colpita a morte. E nei suoi occhi non c'erano che lacrime, e avrebbe pianto sangue, potendo, la povera vampiressa.
E così Iddio vendicava sui carnefici le vittime di cui essi avevano ricoperto il suolo d'Inghilterra.
***

I due lucci

Correva voce pubblica che l'imperatore Carlo s'accingesse a togliere ai frati la libertà di ereditare da coloro i quali morivano nei conventi, cosa che grandemente dispiaceva al Papa. Ulenspiegel, che era allora sulle rive della Mosa, pensò che l'imperatore avrebbe trovato in questo modo il proprio tornaconto dappertutto, dal momento che ereditava invece della famiglia. Egli si sedette sulla sponda del fiume e vi gettò la sua lenza bene innescata. Poi rosicchiando un vecchio pezzo di pan bigio, rimpianse di non aver un po' di vin di Romagna per annaffiarlo: ma si confortò dicendo che non si può sempre avere ciò che si desidera.
Sopravvenne in quel mentre un ghiozzo, che prima fiutò una briciola, la lambì con le labbra, e poi spalancò la sua innocente gola, credendo senza dubbio che il pane vi cadesse da sé. Mentre guardava così in aria, il ghiozzo fu ad un tratto inghiottito da un luccio traditore, che si era precipitato sopra di lui come una freccia.
Il luccio fece altrettanto con un carpione che, incurante del pericolo, stava acchiappando a volo le mosche. Così, ben pasciuto, rimase immobile a mezz'acqua, disdegnando i pesciolini che d'altronde lo fuggivano con tutta la forza delle loro pinne. Mentre se la godeva con tanta beatitudine, ecco sopraggiungere, rapido, vorace, a bocca aperta, un luccio digiuno, che d’un balzo gli fu sopra. Un furioso combattimento s impegnò fra i due; furono scambiati straordinari colpi di fauci; l’acqua era rossa del loro sangue. Il luccio che aveva pranzato mal si difendeva contro quello ch'era digiuno; intanto questo, che s'era allontanato, riprese lo slancio e si scagliò come una palla sul suo avversario; il quale, aspettandolo a bocca spalancata, gli inghiottì più di mezza testa, volle sbarazzarsene ma non potè, a cagione dei suoi denti ricurvi. E tutti e due si dibattevano disperatamente.
Così agganciati, essi non videro un forte amo che, attaccato a un cordoncino di seta, risalì dal fondo dell'acqua, s'affondò sotto la pinna del luccio che aveva pranzato, lo tiro fuor dell'acqua con il suo avversario, e li getto tutti e due sull'erba, senza troppa delicatezza.
— Cari i miei lucci, — disse Ulenspiegel sgozzandoli, — non sareste per caso il Papa e l'imperatore che si mangiano l'un l'altro, e io il popolo che, quando Dio vuole, vi acchiappa col rampino, nel bel mezzo delle vostre battaglie?

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