Lucio Piccolo nel suo studio, a Capo d'Orlando |
"Mi trovavo dinanzi al barone Lucio Piccolo di Calanovella, scrittore finora inedito, sì, ma anche musicista completo, studioso di filosofia che può leggere Husserl e Wittgenstein nei testi originali, grecista agguerrito, conoscitore di tutta la poesia europea vecchia e nuova, lettore per esempio di Gerard Man-ley Hopkins e di Yeats, di cui condivide le inclinazioni esoteriche. Mi trovavo, insomma, di fronte a un clerc così dotto e consapevole che veramente l'idea di dovergli essere padrino mi metteva in un insormontabile imbarazzo. Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo D'Orlando; ma non segue nessuna scuola."
Questo brano di Montale, tratto dalla prefazione al mondadoriano volume Canti barocchi e altre liriche (1956), che costituì l'autorevolissimo atto di nascita del poeta, disegna perfettamente la figura (ma ne decreta contemporaneamente l'estrema eccentricità) di Lucio Piccolo. Eccentricità, di vita e d'opera, tale che — siamo convinti — la centralità letteraria italiana credette che la scoperta-scelta di Piccolo da parte di Montale a quel famoso convegno di San Pellegrino promosso da Ravegnani, fosse uno, e fra i più brucianti, degli ineffabili sarcasmi dell'autore degli Ossi di seppia. Eccentricità che, ribadita da Bassani nella prefazione a II Gattopardo, mise in pace poeti di carriera offesi e critici militanti imbarazzati. I quali ultimi si misero talmente in pace che del poeta Piccolo cercarono di non parlare, non ne parlarono ("... sono un osso troppo duro per voi, per i vostri denti, i vostri solventi non sono abbastanza efficaci per me" scriverà per loro il poeta), lasciando così libero il campo alla cronaca, che di Piccolo s'è sempre occupata come d'un personaggio gattopardesco, esotico, d'un mondo morto, trapassato. Il fascino del quale — per paradosso — decretò invece l'enorme, prosaico successo del romanzo di Lampedusa.
Da “Leggere. Mensile per i libri”, marzo 1989
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