26.12.12

Epica e horror. Il virgilianissimo Silio (di Roberto Andreotti)

Forse un lettore «moderno» digiuno della fitta poesia di Silio Italico (26-101 d.C. circa) potrebbe farsi invogliare da quest'agnizione tedesca di Michael von Albrecht, che a metà degli anni sessanta dedicò al devoto virgilianista d'età flavia una monografia ancora abbastanza in voga: «L'espressione [di Silio], che a volte rasenta la tautologia, indica il rilassamento dell'età avanzata. Ciò non produce solo conseguenze negative - a volte viene in mente la misurata maniera di Adalbert Stifter». Come si intuisce anche solo dietro la sorprendente incisione critica (il narratore della selva boema spegne un po' la vulgata dell'epigono innamorato degli eccessi), Silio è condannato a portare come un fardello il suo progetto epico fuori tempo massimo: scrivere con i Punica il nuovo poema storico di Roma - Roma contemporanea, classicista e quasi neo-augustea - rilanciando con tuoni e fulmini uno dei miti fondatori, la guerra contro Cartagine. In termini più letterari ciò equivaleva a rifare Ennio in salsa virgiliana: ma dopo che Lucano aveva tirato l'elastico sino al punto di rottura.
I Punica appaiono così come un'Eneide continuata (attraverso cui rileggere Omero), dove a grandeggiare negativamente dall'inizio alla fine è soprattutto il nemico: Annibale, sùbito sotto l'egida di Giunone e sùbito vincolato da bambino al giuramento dei Barca, all'odio di vendetta che la Didone virgiliana scagliò su Enea e discendenti. Ora, nel trittico epico flavio il poema di Silio è sempre stato valutato non solo come quello più sanguinolento (e la Tebaide non è certo asciutta), ma anche come il più brutto: si salvano singoli quadri, pezzi di bravura versatile, ma è debole l'impianto strutturale. Più che altro, una studiatissima accademia antiquaria di cartoni epici a effetto: aristie, conciliaboli teologici, albe e tramonti, descrizioni di Italie bucoliche e di armi, sogni, profezie, presagi, discese agli Inferi, giochi funebri... Messi a fuoco dall'occhio un po' psicopatico di un ingranditore dal naturalismo esasperato.
Le fonti antiche - che, si sa, stringono opera e vita in una necessità quasi psicologica - testimoniano che Silio praticava una specie di culto privato virgiliano: oltre a collezionare cimeli da Camera verde, egli acquistò il terreno dov'era la tomba del poeta mantovano, a Napoli, e ogni anno ne celebrava l'anniversario della nascita. A sua volta, osservando un po' la storia degli studi, le sue Guerre puniche in diciassette libri (ma forse dovevavo essere diciotto come Ennio), dalla spedizione di Annibale al trionfo di Scipione dopo Zama (201 a.C), esigono vocazioni filologiche discretamente maniacali: come quella di una latinista della Statale di Milano, Maria Assunta Vinchesi, per la quale egli è approdato nella Bur, munito di brevi note e d'una informatissima introduzione, che a un certo punto - visto che il poema fa muovere e parlare personaggi liviani su un fondale epico - si pone il problema scolastico del profilo delle figure (come faceva Russo con Manzoni). Per apprezzare Silio, in fondo, bisogna mettere in crisi il senso delle proporzioni: anche perché, oggettivamente, tradurre dodicimila versi che ruotano intorno a Canne può occupare un'esistenza intera.

“alias”, 12 Gennaio 2002

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