23.12.12

Il giornalino non fa piangere. Giorgio Manganelli legge "Gian Burrasca".

L'articolo che segue è tratto dal "Corriere della sera". Sul ritaglio da cui l'ho copiato non c'è alcuna indicazione di data. Più di un indizio indica il 1978 come l'anno più probabile. Ignoro se questa acuta e personalissima lettura sia poi entrata in qualche volume del grande Manganelli. (S.L.L.)
Tra le varie deformità della mia infanzia, debbo denunciare anche questa: di non avere mai letto Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba. Questa carenza, pari ad un intero alfabeto di vitamine, mi ha escluso ed esclude da ammicchi, allusioni, citazioni abbreviate — Viva la pappa col pomodoro! — con cui miei coetanei e anche più giovani istituiscono una sorta di solidarietà, di parentela fetale. L'ho letto ora, in una edizione, nella BUR (ed. Rizzoli, pag. 360, lire 1.700), implicitamente destinata alla rilettura per coloro che hanno avuto una infanzia corredata di Gian Burrasca. E' un testo, che è sempre cosa diversa da quei badiali libri per bambini che erano cose da leggere, non libri : ma un testo amichevole, reso tale da una prefazione di uno spirito bizzarro, quel Giampaolo Barosso che compilò un Dizionarietto della lingua italiana di lusso, e dalle ottime note di Ettore Barelli: incidentalmente, due cognomi che moralmente dovrebbero far parte del Giornalino, ed uno, il Barosso, quasi ci riesce, fa proprio ‘palo’ a porta vuota: cosa  da disperarsi.
Dopo aver letto e riletto, da brizzolato post-romantico, il Giornalino, credo di aver capito perché mai io non lo abbia letto all'età cui spettava di diritto. Il Giornalino di Gian Burrasca non fa piangere. I libri che frequentavo e amavo erano libri notevoli per l'alto tasso di strazio, ambascia e desolazione che comunicavano. Non stiamo neanche a parlare di Cuore, libro che ho consumato di singulti; penso anche a certe storie educative e rovinose, alla Capanna dello zio Tom, pieno di malvagità e bontà sventurate, penso a Senza famiglia, ad una storia che mi faceva da Vangelo, con dentro un bambino povero, abbandonato, affamato, inseguito dai cani, solo, deriso, paziente, stracciato, con le piaghe ai piedi, buono, sul quale, quando non nevicava, pioveva sempre. Ricordo, con un lieve raccapriccio, una storia — mi pare fosse della Baccini — nella quale un pollo dichiarava che non v'era destino più nobile che finire in una pentola e fare un buon brodo per assistere una convalescenza.
Gian Burrasca, deplorevolmente, non fa mai piangere: non mi stupisce che venisse  considerato  «scarsamente educativo». Ci sono due ciechi, ma sono dei mendicanti imbroglioni, e c'è un ragazzo storpio, messo lì per farsi beffe di Cuore. Non solo Gian Burrasca è divertente e di una amabile, pulita leggerezza di modi, ma accoglie un rudimento di descrizione del mondo, che è maliziosa, furba e dispettosa.
C'è una dichiarazione di principio che vai la pena di riferire: « In generale accade questo: che i grandi insegnano ai piccini una quantità di cose belle e buone... ma guai se uno dei loro ottimi insegnamenti, nel momento di metterli in pratica, urta i loro nervi, o i loro calcoli, o i loro interessi!». Gian Burrasca ha le sue idee sui grandi, e sui modi da tenere per diventare tali. Si diventa grandi imparando a mentire, a dire una cosa e farne un'altra, e soprattutto imbruttendo. La condizione infantile è una sorta di culmine, di condizione perfetta nella quale la fantasia si allea alla schiettezza.
Gian Burrasca è terribile non solo perché rappresenta il momento libero, avventuroso, della vita, il momento in cui tutto è trasformabile — come l'agnello, il porco, e l'asino che diventano tigre, coccodrillo, leone — ma anche perché è sincero e prende alla lettera il parlar bifido degli adulti. Il bambino conduce a rovina i piani dei grandi perché ignora la ridicola e tragica scissione del vivere sociale.
Agli occhi di Gian Burrasca gli adulti sono anche buffi, la loro potenza si unisce ad una grottesca ignoranza e paura del reale, che il bambino fantastico conosce dall'interno. Uno scambio di occhiali fa loro credere di essere in punto di morte, una « anguilla innocente » li fa svenire, infine credono negli spiriti, li sospettano nascosti in una pianta  di dittamo.
Gian Burrasca sfiora tutti i momenti dell'esistenza adulta: è coinvolto in matrimoni, nella vita politica (« mi pare che avere un deputato in famiglia sia una cosa utile e da averci delle soddisfazioni») la morte, l'eredità, l'aldilà: e in ogni casa l'infante terribile rappresenta insieme l'invenzione e il senso ilare della realtà. Deploro di non averlo letto nella mia archiviata infanzia: chissà, forse il Circolo Pickwick l'avrei scritto io.

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