6.12.12

L'altro Settembrini. L’erotismo gay del patriota

Luigi Settembrini (1813 - 1876)

Luigi Settembrini, il patriota e memorialista del Risorgimento meridionale, fu condannato a morte nel 1851 dai Borboni per la sua partecipazione alle congiure liberali del 1848. La pena fu poi commutata nell’ergastolo da scontare nell’isola di Santo Stefano.
Ne uscì nel 1859, in occasione di un provvedimento di clemenza che offriva ai condannati la possibilità dell’esilio in America, ma Settembrini avventurosamente riuscì a sbarcare in Inghilterra e da lì a tornare in Italia, dove avrebbe contribuito con anticlericale intransigenza alla costruzione dell’Italia unita.
Nel carcere Settembrini scrisse e tradusse. Una delle sue produzioni fu un “falso d’autore”, un racconto tra erotico e pornografico attribuito a un inesistente dotto dell’antichità ellenistica, che la moglie seppellì nell’oblio. Il manoscritto, ritrovato per caso nel 1937, fu nuovamente censurato da Benedetto Croce, che pur potendo rivelarne l’esistenza e autorizzarne la pubblicazione, non volle sfidare i fascisti che di Settembrini facevano una icona inattaccabile. Solo nel 1977 il testo vide finalmente la luce per Rizzoli per la cura di Raffaele Cantarella e con una introduzione di Giorgio Manganelli.
Su “Le Reti di Dedalus”, la rivista on line del Sindacato Nazionale Scrittori, Mario Lunetta qualche mese ha raccontato la vicenda di questo testo  come emblematica del provincialismo e dell’autocensura che hanno caratterizzato e forse continuano a caratterizzare la cultura italiana. Riprendo qui un ampio stralcio del suo puntuto articolo. (S.L.L.)
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L’eroe del Risorgimento
confezionò
un bel falso d’autore
di Mario Lunetta

Mario Lunetta
Settembrini è uno degli Eroi del nostro Risorgimento, un intoccabile Padre della Patria, una statua di bronzo immune da cretti. È un martire ghibellino che soffre la deportazione e l’ergastolo borbonico e, una volta libero dopo la fuga in Inghilterra, gode di universale prestigio e tiene la cattedra di Letteratura Italiana a Bologna e a Napoli, dove muore nel 1876. Soprattutto celebre per le Ricordanze della mia vita, è anche autore delle Lezioni di letteratura italiana, caratterizzate da una polemica anticlericale priva di sconti. Ma è anche un raffinato grecista, un innamorato della paganità, come prova tra l’altro la stupenda traduzione di Luciano cui lavorò durante l’ergastolo nella fortezza di Santo Stefano.
Ma proprio in quei dieci anni tremendi il Settembrini “eroe” dovette riconoscere e svelare a se stesso l’altro Settembrini: la sua faccia diversa, innominabile, mostruosa. La esorcizzò con la stesura di questo racconto piuttosto delizioso, storia erotica promiscua ma con una prevalente valenza omosessuale, che lo scrittore gabellò per traduzione da un mai esistito Aristeo di Megara, e inviò alla moglie.
In una lettera dal carcere alla consorte del 3 febbraio 1854, così le mentisce, costruendosi un alibi per un’opera che pure, evidentemente, riteneva tanto sua da non poter rinunciare a consegnarla, chissà con quali sensi di colpa, alle cure della persona più fidata: “Mi dirai tu: E come ti viene in capo di tradurre scrittore dove è qualche oscenità? Ecco qui, Gigia mia: le opere greche son piene di queste oscenità, quale più, quale meno: era il tempo, era la gente voluttuosa: e le più belle opere ne sono piene. Anche noi altri italiani patiamo questo. Le opere del Boccaccio e del Firenzuola sono bellissime, eppure son lorde della medesima pece. Anche il rigido Machiavelli nelle sue commedie ne è infetto. Scrivendo io da me, mi guarderei bene da queste sozzure: traducendo, non posso fare altrimenti”.
Una faccia di bronzo davvero ineffabile (ma fors’anche vagamente sinistra, menzognera e reticente, quasi da racconto noir), quella dell’indiscutibile eroe. Diamogli quindi la parola, a questa icona all’improvviso scoperta in un mix di ferma coerenza politica e di esaltata ipocrisia erotica: “I Neoplatonici di Aristeo di Megara è una di quelle favole milesie, di cui i delicatissimi Elleni tanto si dilettavano. È un racconto osceno sino a la metà, ma è una opera d’arte; e perché bella opera d’arte è tradotta in italiano. Noi uomini moderni abbiamo tutti i vizi degli antichi Elleni, e forse anche più e maggiori, ma li nascondiamo non so se per pudore o per ipocrisia: quelli non nascondevano nulla, ed abbellivano con l’arte anche i vizi. Uno dei caratteri principali dell’Arte greca è questo che ella non è ipocrita, non nasconde nulla, rappresenta l’uomo nudo qual è, anche con le sue vergogne. I moralisti potranno biasimare questo racconto, gli artisti se ne compiaceranno certamente, e diranno che l’arte fa bella ogni cosa”
Insomma, la Forma è tutto, come avrebbe detto D’Annunzio. Di più: qui Settembrini sembra addirittura anticipare Wilde. Ma ciò che risulta più incredibile è, nel suo sotterfugio da sfrontato bricoleur letterario, la falsificazione di tutto, in una sorta di gioco delle tre, delle quattro, delle mille carte che la sua coscienza infelice e farisaica ha apprestato, chiudendolo in una trappola elegantissima sì, ma terribilmente rischiosa. Qualcosa di analogo al carcere, rispetto al quale il Settembrini “si avvalse della libertà del clandestino. Scrisse tutto, perché lui vivo nessuno l’avrebbe mai letto” (Cantarella).
Il Nostro narra la storia dei due adolescenti Doro e Callicle senza perifrasi, con assoluta innocenza pornografica e una partecipazione sensuale che certo accorcia seccamente in close-up la consueta distanza  fra traduttore e testo da tradurre:
“Quando i due giovanetti giacevano insieme abbracciati parevano due medinni di fior di farina. Erano i loro corpi bianchissimi  e sparsi di color di rosa, e lucenti, e mandavano fresco odore di giovinezza, ed erano sempre tersi per lavacro. Si guardavano l’un l’altro, si carezzavano, si palpavano in tutte le parti della persona, si baciavano negli occhi, e nella faccia, e nel petto, e nel ventre, e nelle cosce, e nei piedi che parevano d’argento: poi si stringevano forte, e si avviticchiavano e uno metteva la lingua nella bocca dell’altro, e così suggevano il nettare degli Dei, e stavano lungo tempo a suggere quel nettare: ed ogni tanto smettevano un po’ e sorridevano, e si chiamavano a nome, e poi nuovamente a stringere il petto al petto e suggere quella dolcezza. E non contenti di stringersi così petto a petto, l’uno abbracciava l’altro a le spalle, e tentava di entrare fra le belle mele, ma l’altro aveva dolore, e quei si ritraeva per non dare dolore al suo diletto. Più volte ora l’uno, ora l’altro tentarono questo giuoco, ma nessuno dei due riuscì; in fine Doro si levò e disse: ‘Un Dio mi suggerisce un espediente’. E preso un vasello di purissimo olio biondo come ambra, soggiunse: 'Ungiamo con quest’olio la chiave e la toppa, e tentiamo, ché forse riusciremo ad aprire'. Unsero bene e la chiave e la toppa, e così Doro senza molta fatica sua e senza molta noia di Callicle entrò vittorioso: a lo stesso modo entrò Callicle ed ebbe una simile vittoria; e così furono contenti tutti e due e goderono il primo frutto del loro amore.”
In realtà, questi convegni erotici sembrano avere non due partner, ma tre: e il terzo è appunto il finto traduttore, sia pure solo in veste di insaziabile voyeur. A provocare scandalizzato sconcerto fra gli scopritori che nel 1937 si videro saltare in mano il fascicoletto da uno scaffale dell’Officina dei Papiri Ercolanesi conservato insieme al manoscritto delle Ricordanze della mia vita (stessa carta e stessa grafia del voluminoso manoscritto del Settembrini) fu appunto quest’imprevista, appassionata partecipazione della Sacra Icona Patriottica per via di sfrenata fantasia libìdica ai giochi proibiti di quell’amore che – per dirla con Oscar Wilde, “non osa dire il suo nome”.   
Nella coltissima Napoli di Benedetto Croce, di Francesco Torraca, di Fausto Nicolini, il libretto era noto come un “errore” del Martire Venerato, qualcosa da dimenticare e da seppellire nel mausoleo cartaceo dei Papiri Ercolanesi. Commenta Manganelli: “Diciamo che essere geniali e onesti, nel senso drammatico e non prudente che può avere questa parola, in Italia, allora, non era possibile. Se si pensa a quel che faceva, negli stessi anni, il dottor Freud a Vienna, c’è da sentirsi rabbrividire”. Aggiungerei che, almeno in quel caso, l’antifascismo di Croce non se la sentì di subire l’inevitabile accusa del regime di denigrare un eroe del Risorgimento, se il libretto fosse venuto alla luce. Ergo, il testo del Settembrini semplicemente non esisteva. Non doveva esistere perché chiamava in causa l’“altro” Settembrini. E, secondo la morale cattolica stagnante negli scantinati di tanta nostra cultura laica, si sa, i “santini tricolori” sono puri spiriti, immuni da problemi edipici o devianze sessuali. Non si può essere al tempo stesso eroe e “invertito”, gloria nazionale e pederasta.
In questa impossibilità sta il vero dramma del Settembrini, la sua forzata doppiezza, e magari non poco del suo “eroismo” meno oleografico. Questa vicenda abbastanza bieca la dice lunga sull’anima profonda del nostro provincialismo intellettuale, sul suo bigottismo irreligioso. Se Croce & C. non avessero relegato fra le pseudoscienze la psicoanalisi, ad esempio, non si sarebbero resi responsabili di un episodio di tartufismo “filologico” tanto rivelatore: un infortunio la cui responsabilità, per quanto ristretta all’àmbito dei “colti” dell’Italia fascista, trova ancora in altre forme larghi spazi nel senso comune italiota dei nostri giorni, nei quali il termine democrazia fa allegramente rima con ipocrisia.

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